Vogliamo il freeware di stato Un’intervista su Galileo 29-7-2000
di Giovanni Spataro
Copyright – Galileonet Anno V – n° 30 29 luglio 2000
Microsoft? No, grazie. Almeno per i parlamentari socialisti dell’Assemblea Nazionale francese, che con una proposta di legge dichiarano chiaro e tondo di voler obbligare le amministrazioni pubbliche d’oltralpe a utilizzare software open source, cioè programmi di cui è possibile conoscere ogni linea di codice ed esenti da diritti d’autore.
La diffidenza francese nei confronti dell’azienda di Bill Gates non è una novità. Durante la vicenda Echelon fu proprio la Delegazione affari strategici dei servizi segreti francesi a denunciare come sia possibile spiare via Internet ogni operazione degli utenti che usano software Microsoft, programmi di cui è impossibile conoscere il codice. Ma a spingere i parlamentari francesi a una presa di posizione radicale contro l’azienda di Redmond non sono solo problemi di sicurezza nazionale, ma anche la paura di una sorta di dipendenza tecnologica e di invasione culturale.
E anche le autorità cinesi si mostrano scettiche di fronte all’adozione di software proveniente dall’azienda statunitense: Chen Chong, sottosegretario alla comunicazione, ha dichiarato di voler favorire il sistema operativo Linux, figlio della comunità open source. Anche per i cinesi l’adozione di un software open source arginerebbe il monopolio di Gates e metterebbe al riparo da eventuali tentativi di spionaggio.
Ma le iniziative francesi e cinesi sollevano una questione più generale: in una società sempre più informatizzata e digitalizzata, è giusto che ampi settori delle amministrazioni pubbliche siano totalmente dipendenti dai prodotti di una azienda privata? Per capirne di più Galileo ha intervistato Andrea Monti, avvocato, docente di Diritto delle tecnologie e accertamento dei reati informatici presso l’Università di Chieti, presidente dell’Associazione per la libertà nella comunicazione elettronica interattiva (Alcei), membro del Comitato esecutivo della Naming Authority italiana e coautore del volume Spaghettihacker (Castelvecchi).
Avvocato Monti, pensa che davvero si possa obbligare per legge una amministrazione pubblica a scegliere Linux piuttosto che i diffusissimi programmi Microsoft?
“Innanzi tutto, non bisogna focalizzarsi su aspetti tecnici, l’importante è che le scelte di questi software si ispiri a concetti di compatibilità e trasparenza. Oggi è in auge Linux, domani toccherà a Free BSD o a qualche altro sistema open source. Il fatto è che non si tratta di stabilire cosa è giusto e cosa sbagliato, ma di scelte politiche e culturali. E’ accettabile che le infrastrutture di comunicazione e informatiche dello Stato, anche quelle critiche come sanità, difesa, sicurezza interna o istruzione, siano “ostaggio” di un’azienda privata, per di più straniera? E’ accettabile che la sicurezza dei sistemi telematici pubblici sia affidata a sistemi privati, non certificati, vulnerabili e la cui manutenzione dipende esclusivamente dal produttore/autore? Basta vedere cosa è successo nel caso degli accesi abusivi a danno dell’Autorità per le telecomunicazioni e altri ministeri, i cui server sono stati bucati grazie a un bug di Windows NT4 noto da almeno un anno. Ancora: è accettabile che questioni come la ristrutturazione delle amministrazioni pubbliche, la firma digitale, l’archiviazione ottica, la carta di identità elettronica siano affidate ad applicazioni delle quali nessuno conosce il funzionamento e l’effettivo livello di sicurezza e affidabilità.
E per favore, lasciamo stare le dichiarazioni sugli “elevatissimi standard tecnologici”: i fatti smentiscono sistematicamente queste pinocchiate. E proseguo: è accettabile che la formazione culturale degli studenti passi per l’imposizione di una lingua i cui contenuti e le cui strutture sono determinati da un’azienda che ne detiene ogni diritto?”
Non sembra che lei abbia dubbi sulla risposta…
“Infatti: tutto ciò è inaccettabile. Eppure, nel caso dell’informatica sta accadendo. Basta guardare per esempio le direttive del piano d’azione del governo per lo sviluppo della società dell’informazione. E ho tralasciato le bieche considerazioni di portafoglio. Per esempio, quando una amministrazione pubblica diffonde documenti ufficiali, bandi di concorso, certificati e così via in un formato proprietario, costringe i cittadini a spendere somme, spesso rilevanti, per acquistare le licenze di un quel dato software.
Se poi si considera che con l’uscita di nuove versioni di un software spesso i vecchi file sono incompatibili, si arriva all’assurdo che per usufruire di un diritto o di un servizio per via telematica il cittadino è costretto a spendere somme aggiuntive, oltre alle spese tradizionali come bolli e così via”.
E secondo lei il software open source o freeware, che non ha proprietari, potrebbe essere sarebbe la soluzione?
“Certo. Invece di pagare miliardi in licenze per software proprietario, grazie ai sistemi freeware lo Stato potrebbe, per esempio, aumentare il patrimonio informatico del Paese. Il freeware è un po’ come una lingua: nessuno possiede l’italiano, ma tutti possono usarlo.
Inoltre, quando qualche scrittore o artista produce un’opera particolarmente brillante, si innesca un meccanismo di feedback che innalza il livello generale della qualità della lingua. Avete mai fatto caso a quanti scrittori “gogoliani” ci sono oggi in Russia? Con il software il ragionamento è del tutto analogo: la lingua informatica non ha proprietari, tutti possono usarla e i colpi di genio portano beneficio a tutti. Inoltre si potrebbero creare posti di lavoro. I software pubblici devono essere sviluppati: le somme risparmiate non pagando royalty potrebbero finire nelle tasche dei programmatori. Per esempio la Germania ha finanziato con fondi pubblici lo sviluppo di GPG, un avanzatissimo software crittografico freeware”.
Ma adottando software open source non si corre il rischio di finire con una miriade di “dialetti” che creerebbero un’incomunicabilità tra sistemi?
“Questa considerazione vale più per i software proprietari che per quelli freeware. Come ho già detto, nel passaggio da una release all’altra i file delle applicazioni proprietarie spesso diventano reciprocamente incompatibili. Quanto alla “qualità” di questi software consiglio il libro “Il disagio tecnologico” di Alan Cooper (edizioni Apogeo), dove il lettore troverà sorprese allarmanti sul come certe aziende rilasciano i nuovi prodotti. In ogni caso, nel momento in cui anche le istituzioni pubbliche avessero accesso ai codici sorgenti, come avverrebbe con il freeware, il problema si risolverebbe automaticamente”.
Microsoft ha commentato che un’iniziativa come quella francese, è pericolosa perché minaccia i futuri affari con le autorità pubbliche. Come conciliare con l’esigenza del business con quelle della libertà di comunicazione e del diritto alla riservatezza?
“Purtroppo, non credo che l’open source possa scalzare del tutto il software proprietario. Piuttosto si dovrebbe arrivare a una ripartizione del mercato a seconda degli specifici interessi dei clienti. Per quanto riguarda le preoccupazioni delle major del software: per non subire emorragie di clientela basta realizzare programmi aperti, compatibili, dal costo accettabile e soprattutto affidabili. Giganti come Compaq e Ibm offrono linee di prodotti che integrano sistemi freeware. Come mai? E per quanto riguarda la tutela dei diritti individuali, i sistemi aperti sono certamente assai più rispettosi di libertà costituzionali come la libertà di manifestazione del pensiero, la riservatezza, la libertà di insegnamento, e di apprendimento”.
Perché il freesoftware sarebbe più rispettoso della libertà di apprendimento?
“Basti pensare al fatto che l’attuale assetto della tutela del software ne impedisce qualsiasi forma di studio e analisi se l’autore lo vieta, come sempre accade. Il risultato è che la conoscenza rimane sempre più appannaggio di pochi. Per non parlare della vergognosa riforma della legge sul diritto d’autore in discussione al Parlamento, che sanziona penalmente anche il semplice studio e costruzione di apparati e software per la decodificazione di messaggi e segnali, senza distinguere l’illegalità del fine. Questo significa stabilire il principio che esiste un monopolio privato sulla ricerca. E in questo, purtroppo, segnali allarmanti arrivano anche dall’Unione europea. Purtroppo i cittadini non hanno lobby che tutelino i loro diritti”.
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