Una sentenza negli Usa nega a un’opera creata da un’intelligenza artificiale la protezione del diritto d’autore. Ma è una decisione sbagliata, che si basa sulla soggettività di questa tecnologia e non sul valore economico del prodotto finale di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
La sentenza emanata il 18 agosto 2023 dal US District Court per il District of Columbia nella Civil Action No. 22-1564 (BAH) nega l’attribuzione del copyright a un’immagine autonomamente generata da un’AI secondo le istruzioni (“prompt”) fornite da un utente. La decisione è apparentemente corretta, ma discutibile perché anche senza AI ci sono già moltissimi casi di opere “creative” prodotte in modo completamente automatico ma tutelabili con il copyright. Il problema è avere affrontato la questione dal punto di vista (sbagliato) della “soggettività” dell’AI e non da quello del valore economico del prodotto finale.
Prima di procedere all’analisi del caso, è necessario fare una premessa sul “perché” —al di là dell’interesse giornalistico— dovremmo preoccuparci di una sentenza statunitense o, in modo equivalente, di una decisione assunta da una corte straniera. Di regola, infatti, le sentenze emanate in altre giurisdizioni non hanno alcun valore nell’ordinamento giuridico italiano, ma sempre più spesso, in assenza di precedenti, capita di leggere fra le righe dei provvedimenti nazionali dei riferimenti a decisioni “altre”. D’altra parte, considerato che i casi giudiziari che riguardano l’innovazione tecnologica arrivano prima negli USA e solo (molto) più tardi in Italia sarebbe ipocrita negare di non avere preso in considerazione i ragionamenti di una Corte d’oltreoceano che ha già affrontato una certa questione. Possiamo discutere quanto vogliamo sull’improprietà di un comportamento del genere, sulla non comparabilità di ordinamenti giuridici diversi, sul fatto che, in questo modo, si crea una sorta di “dipendenza decisionale” dal potere giudiziario di altri Paesi, ma il fatto rimane e dunque ha poco senso ignorare il fenomeno.
Detto questo, e venendo, dunque, al punto, la causa della quale si occupa questo articolo era stata promossa da un soggetto che, dopo aver generato un’immagine tramite un’AI, aveva chiesto all’US Copyright Office (USCO) di inserire questa “opera” nel Register of Copyright in modo da garantirle la piena tutela giuridica. Lo USCO rigettava la richiesta evidenziando la mancanza di un apporto creativo umano e il “creatore”, non contento, si rivolgeva alla corte distrettuale per ribaltare la decisione, non avendo tuttavia migliore fortuna. Il giudice, infatti, liquida in tre righe la questione affermando che “la domanda se un’opera generata autonomamente da un computer sia proteggibile con il copyright … in assenza di qualsiasi intervento umano nella creazione …è quella fornita dal (US Copyright, n.d.a) Register: no.”
Per quanto, come detto, apparentemente condivisibile, questa motivazione andrebbe presa con le molle perché è basata su alcuni presupposti inespressi che non sono del tutto in linea con la realtà della creazione di contenuti digitali.
In termini generali, l’errore culturale più rilevante (ma non l’unico né il solo), ancor prima che giuridico, è psicologico: attribuire al software il ruolo di soggetto invece che di strumento, confondendo così la soggettività (giuridica) dall’autonomia (operativa). Basta guardare le immagini che accompagnano articoli che si occupano di AI, sistematicamente caratterizzate da androidi o altre figure antropomorfe semimeccanizzate che suggeriscono subliminalmente, appunto, l’esistenza di una qualche forma di “coscienza” nella macchina. Chissà se reazioni analoghe si produrrebbero, se invece del “solito” robot questi articoli venissero illustrati con immagini di aspirapolvere che girano per casa o frese a controllo numerico che realizzano componenti meccanici o mobilia.
Anche la decisione del giudice americano soffre, seppur implicitamente, di questo errore percettivo perché negando la registrazione del file generato con l’AI nell’registro del copyright da’ per scontato —anzi, lo scrive espressamente— che il risultato finale è stato effettivamente realizzato “autonomamente” dal software e dunque senza intervento umano. In altri termini, il rifiuto di attribuzione del copyright è basato non sull’assenza di valore intrinseco del prodotto finale, ma sul fatto che non è espressione della creatività umana.
Ma se vale questo principio, allora non dovrebbero avere valore le fotografie scattate con le funzioni di “raffica” che registrano senza intervento umano sequenze di decine di immagini al secondo. Dovrebbero avere ancora meno valore quelle scattate con il telecomando, in tutti quei casi nei quali la macchina fotografica è piazzata in luoghi interdetti a un essere umano (per esempio, una gabbia per il lancio del martello), o il soffitto di un palazzetto dello sport. Infine, non dovrebbero averne alcuno quelle immagini estratte —cosa tecnicamente possibile con un livello qualitativamente decente almeno dal 2015— da riprese video nelle quali è del tutto assente l’intervento umano sul singolo frame.
Discorso analogo vale per le immagini create a tavolino con le funzionalità dei software di fotoritocco che partendo da una fotografia ne generano versioni di vario tipo —dallo outline alla trasformazione in disegni al tratto o negli stili pittorici più diversi— o che, più prosaicamente, “decidono” quale sia il “taglio” migliore per una determinata foto alterandone il campo visivo originario o stabilendo la migliore combinazione dei parametri di esposizione, contrasto, ombre e via discorrendo.
Nulla di diverso a proposito dei suoni, per i quali basterà solo citare l’autotune o, volendo generalizzare l’argomento, parlare dei modellatori come il Kemper Profiler. In ciascuno c’è un software che si interpone fra le stonature vocali del “cantante” o i segnali elettrici generati dai pick up di uno strumento per raddrizzarle (le prime) o generare il suono —poniamo— della Stratocaster accoppiata con un Vox AC30 di Ritchie Blackmore. E se vogliamo parlare di generazione automatica della voce, le nuove possibilità di utilizzare l’AI partendo da brevi frammenti per generare frasi con la voce di chiunque sono l’evoluzione concettuale di sintetizzatori come il venerando Vocaloid.
Anche nel video —e dunque nel cinema— il tema è del tutto analogo: la possibilità di ricreare e far recitare attori scomparsi o troppo vecchi per determinati ruoli, è diventata concreta ed economicamente sostenibile tanto da consentire agli Abba di realizzare un incredibile concerto nel quale sul palco salgono i loro cloni digitali e da provocare rivendicazioni “sindacali” degli artisti contro le case di produzione che vogliono poter riutilizzare l’immagine degli attori dandola in pasto a sistemi di AI.
Il cerchio si chiude con l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla scrittura e, in particolare, sule traduzioni. Sul tema non c’è molto da aggiungere dal momento che valgono, fatte le debite differenze, le considerazioni già svolte.
Allora, per sintetizzare e concludere il ragionamento quando si parla di automazione della produzione di contenuti, il tema da discutere non è chi ne sia l’autore ma se siano suscettibili di uso economico da chi, in un modo o nell’altro, li ha realizzati. Messa in questi termini, il fotografo che estrae un epic-shot di una prestazione sportiva da una ripresa “casuale”, il musicista che genera un riff di successo utilizzando una piattaforma di AI o lo scrittore che “esterna automaticamente” un sentimento personalissimo hanno tutti diritto a sfruttare economicamente questo prodotto e dunque a rivendicare il diritto (right) a controllarne la riproduzione (copy): copyright, dunque.
Discorso diverso vale per il diritto morale d’autore, quello del quale quasi mai si parla perché poco interessa in un mondo nel quale la creatività —atto individuale e irripetibile per eccellenza— è diventata prodotto —oggetto seriale, noioso e riprodotto infinite volte. Di un’ “opera creativa” interessa soltanto la vendibilità e non il fatto che sia il frutto di un travaglio interiore o di anni di studio e di applicazione. Ciò che conta, come un qualsiasi oggetto “da banco” è il prodotto finito, da mettere nel carrello, consumare e buttare non appena se ne trova uno “fatto meglio”.
Detta in altri termini, un contenuto realizzato con un elevato apporto tecnologico non lo priva della sua attitudine allo sfruttamento economico e dunque alla sua tutelabilità dal (ri)utilizzo da parte di terzi. Dunque, ciò che serve è distinguere l’attribuzione dell’atto creativo dallo sfruttamento economico di un contenuto in qualsiasi modo generato.
Detta in modo ancora diverso: non serve essere “autori” per “campare” di contenuti.
Possiamo, legittimamente, essere turbati dalla perdita di centralità dell’artista nella creazione di un’opera e preoccuparci dell’ulteriore istupidimento dell’individuo che dopo avere rinunciato ad usare il proprio corpo ora sta facendo lo stesso con la mente. Ma dal punto di vista strettamente economico, da quello del mercato, la decisione del giudice americano —e le lamentazioni dei catastrofisti dell’AI— hanno poco senso. Il fenomeno si è manifestato, non può essere fermato e quindi possiamo solo decidere come vogliamo adattarci ad una nuova realtà.
Poi, a margine, dovremmo chiederci se sia lecito consentire che cambiamenti tanto importanti nel nostro modo di vivere siano decisi da logiche puramente industriali e finanziarie come quelle di Big Tech ma questa, come diceva la voce narrante alla fine di Conan il barbaro, è un’altra storia.
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