Linux&Co n.ro 14
di Andrea Monti
Non è una battuta, ma il titolo di un pezzo pubblicato il 14 febbraio 2001 su C-net che riporta a sua volta un “lancio” di Bloomberg, sulle dichiarazioni di Jim Allchin, chief operating system di Microsoft.
La tesi dell’autorevole esponente di Microsoft può essere sintetizzata come segue: il fatto che Linux – e più in generale i sistemi open source – “mettono a nudo” i “segreti” dei programmi rendendo liberamente disponibile e modificabili i sorgenti disincentiva gli investimenti delle aziende nei settori di ricerca e sviluppo oltre a rappresentare un grave pericolo per la tutela della proprietà intellettuale. Dunque – è il passaggio successivo – i legislatori dovrebbero rendersi conto di questa minaccia.
Microsoft – si legge nell’articolo di C-Net – ha evidenziato le proprie preoccupazioni al legislatore statunitense nell’ambito di una discussione sulla protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
Siamo dunque di fronte ad una presa di posizione ufficiale, alla quale farà certamente seguito, se già non è partita, una massiccia campagna di lobbying diretta a trasformare in “verità accettabile” quella che al momento è un’affermazione tecnicamente scorretta e giuridicamente sbagliata.
E’ bene dunque chiarire, prima che gli effetti di questa strategia di comunicazione adottata dalla casa di Redmond comincino a prodursi anche dalle nostre parti, quale sia il corretto inquadramento giuridico del software open source e se possa o meno costituire un elemento frenante nello sviluppo del mercato e dell’innovazione tecnologica. Così come sostenuto dall’eminente rappresentante Microsoft.
Dal punto di vista strettamente giuridico – tralasciando per ora le questioni ideologiche – il concetto di open source è una modalità di esercizio del diritto d’autore.
La legge e le convenzioni internazionali attribuiscono all’autore di un software il diritto assoluto e incomprimibile di farne ciò che meglio crede. Può venderlo, cederlo in licenza, modificarlo, toglierlo dalla circolazione… insomma, tutto quello che gli viene in mente.
Nell’ambito dei diritti che spettano allo sviluppatore di un software, quindi, c’è anche quello di consentirne la libera distribuzione e modificabilità dei sorgenti. Tant’è che se qualcuno dovesse violare la volontà dell’autore (per esempio, nel caso di Linux, impedendo di rendere disponibile una distribution regolata dalla GPL), correrebbe seriamente il rischio di essere condannato per duplicazione abusiva di software (si, proprio quella che normalmente si invoca nei confronti di chi duplica e vende abusivamente opere protette).
Tutto questo, per ribadire ancora una volta che la GPL e in generale in modelli di free licensing traggono la propria validità giuridica proprio da quel diritto di autore che sembrerebbero voler eliminare. In realtà, quindi, GPL&C sono “semplicemente” una diversa modalità di esercizio di un diritto già attribuito al programmatore dalla legge.
Stabilito che l’open source licensing è perfettamente legale, vediamo ora se è vero che costituisce una minaccia per la proprietà intellettuale.
I diversi modelli di free licensing offrono all’autore vari livelli di protezione, dal più “elastico” – quello di Berkeley – che sostanzialmente si limita a tutelare i diritti morali, alla GPL che impone ai successivi “modificatori” del software di non limitare il diritto di duplicare e modificare l’applicazione.
Quindi – prima conclusione – non è vero che con l’open source l’autore sia “abbandonato a se stesso”.
Veniamo ora alla questione del presunto danno all’innovazione.
Ogni idea, standard, codifica, soluzione tecnica implementate da zero in un’applicazione “open” è sottoposta al vaglio di una vera e propria comunità scientifica. Che si fa “garante” della consistenza tecnica del prodotto grazie ad un beta testing molto approfondito. In più, ciascuno è autorizzato a “prendere spunto” dall’applicazione principale per creare qualcosa di diverso o da applicare in ambiti differenti.
Per onestà intellettuale, tuttavia, bisogna anche dare conto di accuse che possono essere sintetizzate nel “Caso DECSS”.
In breve, la storia è questa: qualcuno ha realizzato un DVD player per Linux che non contiene le “protezioni regionali” (quelle che impediscono di usare i Europa un DVD prodotto in USA). Il risultato sarebbe stato raggiunto “aggirando” la protezione basata su un sistema crittografico chiamato appunto DeCSS. Giusto o sbagliato che sia legittimare un “accordo di cartello” che danneggia i consumatori, privati della possibilità di scegliere il miglior prezzo e i contenuti che più li interessano, rimane il fatto che il DeCss è frutto di investimenti in ricerca e sviluppo. E che nessuno, tranne chi lo ha prodotto, ha il diritto di decidere se rilasciare pubblicamente le specifiche tecniche o se avvalersi del “diritto al segreto” per proteggere i propri interessi. Il tutto è finito – come era facile immaginare – nelle aule giudiziare statunitensi, dalle quali è venuto fuori un verdetto alquanto discutibile. Fatto sta che questa vicenda è diventata il paradigma utilizzato per dimostrare la “pericolosità” dell’open source. Si vorrebbe infatti trarre la conclusione che gli “open coder” mirano sistematicamente a violare i diritti di proprietà intellettuale delle imprese “tradizionali”.
In realtà il caso DeCSS è stato estremamente strumentalizzato da ambo le parti (major dell’audiovisivo e sostenitori della “libertà a tutti i costi”). Se effettivamente dovesse essere dimostrato che il workaround incriminato è frutto di reverse engineering allora poco ci sarebbe da discutere. Si tratta di una cosa illegale e fino a quando la norma rimane quella che è bisogna rispettarla (nulla vieta di chiedere – in modo lecito – che sia modificata).
Ma se dovesse emergere – come pare – che siamo di fronte non ad un caso di reverse engineering ma ad un’applicazione scritta ex novo allora non sarebbe stata commessa alcuna illegalità.
Il punto, tuttavia, non è questo. Anche se dovesse essere dimostrato che la crittanalisi del DeCSS è frutto di pratiche illecite, non si potrebbe generalizzare la conclusione affermando che l’intero sistema basato sull’open source sia fuori legge. Non più di quanto sarebbe corretto affermare che la Chiesa protegge gli assassini perché i “missionari” sudamericani hanno coperto le violenze dei conquistadores spagnoli. In termini meno retorici, non si può fare di tutta l’erba un fascio, e d’altra parte, non è stato certo il sig. Freeware ad inventare il reverse engineering. Che è una pratica ampiamente diffusa anche fra “insospettabili”.
Anche da questo punto di vista, quindi le “accuse” rivolte al mondo del software libero sono prive di fondamento.
Ma allora, cosa voleva dire l’uomo di Microsoft?
Probabilmente, intendeva riferirsi al fatto che l’esistenza di un modello di sviluppo e distribuzione alternativo a quello teorizzato nella famosa “lettera di Bill Gates agli hobbysti” dimostra che non necessariamente si deve guardare il mondo da una sola finestra. E che dunque le strategie commerciali e produttive basate sulle note assunzioni dogmatiche (segretezza dei sorgenti, obsolescenza programmata, incompatibilità) e sul “controllo psicologico” degli utenti (vedi In the beginning was the command line di Neal Stephenson) cominciano a perdere colpi..
Diventa difficile, infatti, giustificare prezzi elevati e tecnologia meno evoluta, se sul mercato è contemporaneamente presente qualcosa di gratuito e on the edge che fa almeno le stesse cose (alcune delle quali anche meglio).
In altri termini, se l’innovazione è affidata ad un unico soggetto, questa può essere pilotata in modo rigoroso, non sulla base del progresso, ma su quella delle necessità commerciali dell’azienda. Inoltre, in assenza di “concorrenti” non c’è modo di sapere se quello che ci viene proposto come “rivoluzione tecnologica” sia in realtà un progetto che riposava da anni in qualche schedario polveroso. Basta pensare al multitasking, privilegio appartenente già da vent’anni agli Amiga e che su Windows è arrivato in clamoroso ritardo (i maligni dicono che c’è ancora da aspettare). Oppure al filesystem, oppure alle GUI o a mille e mille altre cose.
In questo senso, le affermazioni di Jim Allchin sono corrette. L’Open Source rappresenta un grosso pericolo per una certa proprietà intellettuale e per un determinato modo di concepire l’innovazione orientata al maggior controllo possibile dell’utente intendendo per utente sia il singolo soggetto, sia l’azienda che impiega sistemi informatizzati). Che si trova in condizioni di poter solo “prendere o lasciare” ciò che gli viene offerto con la logica del “se non è zuppa, è pan bagnato”.
Giunti a questo punto, tuttavia, quello che preoccupa non è tanto la non condivisibile – ma rispettabile – opinione espressa nei confronti del software libero, quanto la strategia adottata per risolvere il “problema”.
Invece di dimostrare con i fatti la superiorità tecnologica e commerciale dei prodotti targati Windows (sul che – per carità – nulla da obiettare), la Microsoft annuncia addirittura iniziative di dirette ad ottenere leggi che mettono fuori legge (passatemi il gioco di parole) l’Open Source.
D’altra parte, dove non arriva BSA…
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