Computer Programming n.ro 68 del 01-04-98
di Andrea Monti
Lancio stampa
Bologna, 24 febbraio 1998
L’anonima del software torna a colpire.
Scoperto nel bolognese un pericoloso criminale che fra le mura della propria azienda, in spregio a qualsiasi rispetto per la legge e l’ordine, si macchiava di un crimine atroce: installava più copie di un applicativo su svariati elaboratori elettronici pur essendo titolare di una sola licenza d’uso.
Oggi il delinquente – la cui responsabilità è emersa oltre ogni ragionevole dubbio grazie ai sofisticatissimi strumenti adoperati nell’indagine – è stato giustamente tratto a giudizio per rispondere davanti a Dio e agli uomini di questo aberrante comportamento e per scontare la dura e meritata pena che il giudice sicuramente gli infliggerà, monito esemplare per la genìa dei pirati informatici…
E così, mentre un gruppuscolo di esagitati appartenenti alle Brigate antiSoftware Abusivo innalzava una forca davanti la Pretura di Bologna insaponando accuratamente il cappio (non si sa mai, dovesse bloccarsi…) nell’attesa di poter eseguire pubblicamente la pena capitale annunciata per il mostro, all’interno del Palazzo di Giustizia si consumava la tragedia.
L’arringa del difensore – ultimo diaframma con le porte del carcere duro – si è appena conclusa che il Giudice si alza per dare lettura della decisione. Attimi di tensione …il Pretore, visto l’articolo 530 del codice di procedura penale, assolve l’imputato perché il fatto non costituisce reato…
Immediate le reazioni dei forcaioli.
Alcuni dopo una prima fase di choc provocata dalla sorpresa, si riorganizzano e tentano di linciare comunque il malcapitato finalmente assolto da un’accusa inesistente, mentre l’addetto al sapone – in evidente stato confusionale – cercava di impiccare un semaforo avendolo scambiato per un computer zeppo di software non originale.
L’intervento di attivisti della Lega per il Software che Funziona e Costa Poco ha provocato ulteriori tafferugli, sedati dalla polizia che ha disperso i dimostranti minacciando di costringerli ad installare la prossima beta di Internet Explorer…
Una spiegazione
Vi chiedo scusa, ma ricevuta la notizia di cui parlerò meglio fra qualche riga, non ho resistito alla tentazione di aprire l’articolo con questa ricostruzione di fantasia che però non cambia il nucleo dei fatti: il 24 febbraio scorso a Bologna il Pretore ha effettivamente assolto un imprenditore per avere installato più copie dello stesso programma (provate ad indovinare quali?) sui propri PC.
Ricorderete, ne ho parlato nei numeri scorsi, che già una sentenza del Pretore di Cagliari aveva stabilito lo stesso principio relativamente allo stesso fatto (installazione – con una sola licenza – di più copie dello stesso applicativo) e infatti da quanto è dato di capire dalla formula assolutoria pronunciata dal giudice (il fatto non costituisce reato) anche nel caso bolognese è stata ribadita la differenza fra scopo di lucro (richiesto dalla legge sul diritto d’autore e consistente nell’incremento positivo del patrimonio) e scopo di profitto (cioè il risparmio da mancata spesa che si realizza duplicando il programma). Dal momento che l’art.171 bis l.d.a. punisce non la semplice riproduzione, ma quella caratterizzata dall’essere diretta a produrre un guadagno economico, si spiega il perché di queste decisioni.
A scanso di equivoci credo sia opportuno ribadire ancora una volta che non ho nessuna intenzione di affermare il diritto di espropriare gli sviluppatori del frutto del loro lavoro; più semplicemente sono convinto che sanzionare penalmente (cioè far rischiare la galera a qualcuno) la violazione di un contratto (la licenza d’uso) senza nemmeno distinguere fra caso e caso sia veramente eccessivo.
Bravo quindi il giudice bolognese per avere applicato con buon senso una legge disgraziata senza cedere al clima di terrorismo psicologico da qualche tempo instauratosi dalle nostre parti.
Tutto va bene, madama la Marchesa?
Le due sentenze (Cagliari e Bologna) sono certamente molto importanti, ma non devono dare la falsa impressione che siano stati risolti tutti i problemi legati all’applicazione della legge sul software, dal momento che rimangono ancora in piedi questioni altrettanto importanti di quelle (si spera) definitivamente risolte dai processi.
Se da un lato – ai sensi della legge vigente – la possibilità di applicare l’art.171 bis l.d.a. si riduce alle ipotesi di compravendita di software illegittimamente copiato, dall’altra resta in piedi sia la tendenza (emersa in alcuni procedimenti penali torinesi) del contestare anche il reato (ben più grave) di ricettazione, punito con la reclusione da due a otto anni; sia la proposta di applicare anche l’art.171 l.d.a. che si occupa sempre di duplicazione abusiva senza però menzionare esplicitamente il software e senza far riferimento alla questione lucro/profitto.
Se non è zuppa…
Il discorso sembra alquanto ingarbugliato e per capirci qualcosa forse è bene leggere l’articolo (ovviamente privato delle parti che chiaramente non possono riferirsi al software):
Salvo quanto previsto dall’art.171-bis, è punito con la multa da lire 100.000 a lire 4.000.000 chiunque, senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma:
a) riproduce, trascrive, recita in pubblico, diffonde, vende o mette in vendita o pone altrimenti in commercio un’opera altrui o ne rivela il contenuto prima che sia reso pubblico,o introduce e mette in circolazione nel regno esemplari prodotti all’estero contrariamente alla legge italiana;
b) …
c) compie i fatti indicati nelle precedenti lettere mediante una delle forme di elaborazione previste da questa legge;
d) riproduce un numero di esemplari o esegue o rappresenta un numero di esecuzioni o di rappresentazioni maggiore di quello che aveva il diritto rispettivamente di produrre o di rappresentare;
e) …
f) …
Il primo caso (chiunque… riproduce… vende o mette in vendita … un’opera altrui – lettera a) sembrerebbe valido anche per i programmi, ma anche l’ipotesi di cui alla lettera d) sembra calzare a pennello (riproduce un numero di esemplari…maggiore di quello che aveva il diritto di produrre). Quindi se ne dovrebbe concludere che le due tanto osannate sentenze non hanno affatto risolto il problema, perché se non si applica l’art.171 bis l.d.a. comunque rimane in piedi il precedente 171.
A parte che se pure così fosse, agli indagati converrebbe dichiararsi colpevoli di quest’ultimo reato (in modo da pagare la semplice multa) invece che dell’altro più grave (rischiando la pena detentiva) ci sono delle buone ragione per escludere l’applicabilità residuale dell’art. 171 l.d.a.
Come potete verificare di persona, da nessuna parte infatti la norma in questione nomina il software ed inoltre si apre con un rinvio – per quanto non da lei stabilito – all’articolo successivo (il 171 bis) che invece si riferisce solo ed esclusivamente ai programmi.
Il quadro che viene disegnato è dunque il seguente: se la duplicazione riguarda le opere dell’ingegno si applica l’art.171 l.d.a., se invece l’attività è compiuta sui programmi allora si applica l’art.171bis; o l’uno o l’altro.
Ad ulteriore conferma della validità del ragionamento c’è una constatazione: le norme relative ai programmi sono state inserite da un apposito decreto legislativo che avrebbe potuto benissimo modificare anche l’art.171 l.d.a., se ciò non è stato fatto evidentemente si è voluto limitare la protezione del software solo all’art. 171 bis.
La ricettazione
Per la ricettazione le cose sono un po’ più complesse.
L’art.648 del codice penale punisce chiunque al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista denaro o cose provenienti da delitto.
Innanzi tutto, notate come l’articolo parli di scopo di profitto e che quindi – a differenza dell’art. 171 bis l.d.a. – anche il semplice risparmio di spesa rende configurabile il reato.
I problemi sorgono sull’oggetto dell’azione: denaro o cose. E’ evidente che il software non è denaro, mentre si discute sul fatto che possa essere ritenuto o meno una “cosa”.
Il ragionamento è abbastanza complesso oltre che astruso, ma – per farla breve – alcuni sostengono (applicando per analogia quello che succede negli assegni) che se il programma è contenuto nel supporto, allora vi si incorpora, ne diventa parte integrante e quindi si trasforma in “cosa”; il cerchio dunque si chiude e il reato si può configurare.
Credo sia abbastanza evidente il difetto di questa argomentazione: il software tutto è tranne che una cosa, e la memorizzazione in un supporto non lo fa diventare tutt’uno con quest’ultimo, anzi è esattamente il contrario. Ci sono poi altri argomenti di matrice più strettamente giuridica che arrivano alla stessa conclusione per altre vie e che vi risparmio, fatto sta che l’applicabilità della ricettazione non è affatto pacifica.
In particolare, per quanto riguarda chi si limita ad acquistare una copia senza trarne lucro vale anche il discorso che segue: poiché la ricettazione presuppone che la cosa o il denaro siano frutto di un delitto, e (grazie alle sentenze di Cagliari e Bologna) il semplice utilizzare una copia priva di licenza non è reato, allora (la ricettazione) non è configurabile perché manca il reato presupposto.
Epilogo
Ci sono altre cose – oltre agli aspetti giuridici – sulle quali riflettere nella vicenda bolognese e mi riferisco al modo in cui l’autorità giudiziaria viene a sapere della commissione di un presunto reato. Sembra – al momento non dispongo di informazioni precise – che anche dietro a questo processo ci fosse una segnalazione della Business Software Alliance. A questo punto forse – anzi, senza forse – avremmo il diritto di sapere esattamente chi sono e cosa fanno questi signori, dove si procurano informazioni e come (che fine fanno le cartoline di registrazione dei programmi?).
Se l’Italia avesse una vera legge sulla privacy forse queste domande troverebbero una risposta.
A parte questo, per fortuna le leggi non vengono modificate con la stessa rapidità dei programmi, per cui c’è modo (almeno si spera) di aspettare che il tempo e (purtroppo) i processi giudiziari rimettano un po’ d’ordine in un settore dove le urla sguaiate di pochi stanno cercando di soffocare una corretta applicazione delle norme, imponendo con la violenza interpretazioni giuridiche allucinanti (copiare software è come rubare, ad esempio) solo per tutelare “semplici” interessi economici. Sarebbe come se qualcuno volesse convincervi della superiorità di un applicativo urlandovi ossessivamente nelle orecchie che il resto non vale niente…
D’altra parte qualcuno – credo fosse Goebbels – diceva: un bugia detta una volta è una bugia, una bugia ripetuta centomila volte diventa verità.
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