La crisi energetica del Kazakhstan solleva un tema apparentemente meno drammatico ma strategicamente critico: il “turismo energetico” delle aziende high-tech e la pericolosità delle criptovalute. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di digital law nell’università di Chieti-Pescara – Inizialmente pubblicato da Formiche.net
Uno degli effetti collaterali della crisi Kazakha ha colpito l’industria del “mining” basata su data-centre iperenergivori che dedicano enorme potenza alla ricerca di criptovalute. La complessità della matematica delle criptovalute e la necessità di compiere un enorme numero di calcoli garantiscono la loro scarsità e la loro sicurezza. Il prezzo da pagare per trovare un bitcoin (o analoghi) è, innanzi tutto, rappresentato dal costo dell’energia per eseguire queste operazioni. Non stupisce, quindi, che Paesi come il Kazakhistan abbiano pragmaticamente adottato politiche attrattive delle aziende di mining.
La politica energetica come fattore attrattivo per le aziende high-tech
Astrattamente, questa strategia è il classico esempio win-win: il surplus di energie consente di fornirla a prezzi competitivi, le aziende di mining si moltiplicano, incrementando i propri profitti, lo Stato incassa maggiori entrate fiscali. Nei fatti, invece, quello che sta accadendo in Kazakhistan dimostra che ignorare i fondamentali della geopolitica economica privilegiando le tattiche nomadiche dell’industria delle piattaforme può avere conseguenze molto pesanti.
A differenza di un sistema produttivo basato su impianti non facilmente rilocabili, al netto delle ovvie complessità, quello basato sulle piattaforme —e dunque sul software— è più facilmente gestibile perché il valore è nella componente immateriale. In altri termini, un data-centre è di per sé “neutro” rispetto ai software che fa funzionare. Questo consente alle imprese una maggiore mobilità verso luoghi e Paesi che offrono le migliori condizioni in un dato momento storico-economico. Come dimostrano gli eventi di questi giorni, tuttavia, trascurare o non preoccuparsi dei più generali aspetti geopolitici può creare conseguenze difficilmente gestibili.
Energia, criptovalute e sovranità tecnologica
Analogamente alle fiat money, le criptovalute hanno valore solo ed esclusivamente perché qualcuno glielo riconosce. A differenza delle fiat money, tuttavia, l’esistenza delle criptovalute dipende da quella dell’infrastruttura tecnologica che consente di cercarle, scambiarle e custodirle. In altri termini questo significa affidare a chi controlla reti, data-centre e piattaforme software il potere concreto di decidere della ricchezza di individui e nazioni. Ma significa anche dipendere da chi possiede il controllo sull’energia necessaria per fare funzionare tutto il sistema.
Il dossier criptovalute riguarda essenzialmente attività finanziaria speculativa e quindi se il settore dovesse crollare a causa di improvvise contrazioni della disponibilità di energia saremmo di fronte semplicemente all’ennesima esplosione di una bolla high-tech come quelle già viste negli anni passati.
La crisi Kazakha, tuttavia, evidenzia ulteriori scenari che andrebbero considerati circa l’intersezione fra sicurezza nazionale, energia e tecnologie dell’informazione.
Il neocolonialismo energetico
L’avvento di un neocolonialismo energetico basato sull’elettricità è in grado di condizionare lo sviluppo strategico delle applicazioni dell’AI. Anche l’addestramento di modelli per piattaforme di machine learning richiede, infatti, enormi quantità di energia. Non è un caso che i maggiori fornitori di “tempo macchina” per l’addestramento dei modelli siano Microsoft, Google e Amazon, cioè aziende che possiedono enormi data-centre in giro per il mondo.
Di conseguenza, e analogamente a quanto accade per le criptovalute, i Paesi in grado di contenere i costi energetici (perché dotati di surplus o con politiche di sostegno economico) acquistano per ciò solo un vantaggio incolmabile rispetto ad altri, come l’Italia, che da questo punto di vista sono fuori dalla competizione. Tuttavia, mentre blockchain e criptovalute sono tecnologie di discutibile utilità delle quali si può fare a meno, non si può certamente dire lo stesso del machine learning.
L’assenza delle tecnologie dell’informazione nella politica energetica italiana
Le implicazioni per la sovranità tecnologica di ciascun Paese sono evidenti e non richiedono di essere ulteriormente dettagliate.
La scelta italiana di accelerare la digitalizzazione dei servizi pubblici dovrebbe —sperabilmente— contemplare anche prospettive di lungo periodo per evitare problemi come quelli che hanno condizionato i data-centre per la produzione di criptovalute in Kazakhistan. Tuttavia, ci sono elementi per ritenere che questo non sia accaduto.
La reazione di breve periodo alla crisi energetica attuale è basata essenzialmente sul tentativo di contenere i costi, ma le scelte politiche di lungo periodo sono ancora al di là da venire.
Inoltre, il dibattito pubblico su questo tema si è ancora una volta polarizzato sulla questione nucleare. Esso ripropone, da ambo le parti, posizioni poco adeguate alle necessità contemporanee e allo scenario geopolitico attuale. Non considera le necessità energetiche della ricerca applicata nei settori di punta delle tecnologie dell’informazione, dalle quali dipende la capacità del Paese di rivendicare un ruolo di primo piano sugli scenari internazionali. Introduce, dunque, un’inerzia strutturale nella capacità di competere con Paesi che, a differenza del Kazakhistan, usano la politica energetica anche per combattere la “soft-war” tecnologica di questi tempi.
Possibly Related Posts:
- Webscraping e Dataset AI: se il fine è di interesse pubblico non c’è violazione di copyright
- Perché Apple ha ritirato la causa contro la società israeliana dietro lo spyware Pegasus?
- Le sanzioni UE ad Apple e Google aprono un altro fronte nella guerra contro Big Tech (e incrinano quello interno)
- La rottura tra Stati e big tech non è mai stata così forte
- Le accuse mosse a Pavel Durov mettono in discussione la permanenza in Europa di Big Tech