Trib Monza Sez. staccata Desio Ord. 14 maggio 2001

… omissis …

1. – Sulla carenza di legittimazione attiva
I convenuti hanno eccepito il difetto di carenza di legittimazione attiva della ricorrente, osservando che il marchio “Doctor Glass” risulta essere stato registrato non dalla Doctor Glass Group s.r.l., bensì dalla “Vetri Auto Piacenza di Ivan Rossi & C. s.a.s.”.
L’eccezione è stata superata dalla ricorrente producendo il contratto col quale la “Vetri Auto Piacenza di Ivan Rossi & C. s.a.s.” in data 22 gennaio 1998 ha concesso in licenza esclusiva d’uso alla Doctor Glass Group s.r.l. il marchio in questione.
Nessun pregio ha l’ulteriore eccezione dei convenuti, secondo i quali il contratto di cessione di marchio dovrebbe considerarsi nullo in quanto non accompagnato dalla cessione dell’azienda. Come è noto, infatti, il d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480 ha modificato il disposto dell’art. 15 Legge Marchi rendendo possibile la cessione del marchio separatamente dall’azienda e ponendo come unica condizione che tale cessione non comporti inganno nei caratteri dei prodotti o dei servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico. Inganno che nel caso di specie è stato solo ventilato dai convenuti in sede di discussione orale, ma non è supportato da alcuna circostanza di fatto idonea a suffragarlo.

2. – Sulla carenza di legittimazione passiva
L’eccezione di difetto di legittimazione passiva è stata compiutamente sviluppata unicamente dalla Nexia s.a.s. La società convenuta ha infatti sottolineato il proprio ruolo di semplice provider non titolare del sito all’origine del contendere.
Va preliminarmente sottolineato che l’eccezione in nessun modo può essere estesa anche per il sig. Villa, quale titolare dell’impresa Deico. Quest’ultima risulta infatti essere titolare del sito, sicché riesce difficile immaginare che l’eccezione (anche se sollevata pure dal Villa) possa essere minimamente presa in considerazione.
Nel caso della Nexia s.a.s., l’eccezione merita di essere vagliata, dal momento che essa si traduce nel problema di stabilire se il provider possa essere chiamato a rispondere delle condotte (civilisticamente) illecite poste in essere da coloro che per suo tramite si connettono ad internet.
Ritiene tuttavia il Tribunale che l’eccezione debba essere riqualificata, trattandosi in realtà non di eccezione di difetto di legittimazione passiva, ma di eccezione di difetto nel merito di titolarità del lato passivo del rapporto azionato.
Va infatti rammentato che la giurisprudenza più recente (in ciò seguita dalla prevalente dottrina) tende a risolvere la legittimazione attiva e passiva “nella titolarità del potere o del dovere (rispettivamente per la legittimazione attiva o passiva) di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, indipendentemente dalla questione dell’effettiva titolarità dal lato attivo o passivo del rapporto controverso, questione che, invece, attiene al merito” (così Cass., 2 febbraio 1995, n. 1188; ma sul tema anche Cass., 26 novembre 1998, n. 11981; Cass., 4 febbraio 1993, n. 1375; Cass., 27 novembre 1986 n. 6998).
In altri termini, perché sussista la legittimazione attiva o passiva è necessario e sufficiente che un soggetto affermi la propria titolarità del lato attivo di un diritto (legittimazione attiva) e che ad un soggetto sia attribuita titolarità del lato passivo di un diritto (legittimazione passiva), senza che sull’esistenza di tali condizioni dell’azione venga ad influire la concreta titolarità attiva o passiva del rapporto dedotto in giudizio, la quale viene a tradursi in una mera questione di merito che conduce conseguentemente non ad una pronuncia in rito sulla legittimazione, ma ad una pronuncia in merito sulla possibilità di accogliere la domanda.
Ne deriva che allorquando venga eccepita l’estraneità al rapporto giuridico dedotto in giudizio di una delle parti la contestazione non attiene ad un difetto di legittimazione ad agire e contraddire – per la cui sussistenza è necessario e sufficiente che la titolarità del rapporto venga semplicemente prospettata mediante deduzione di fatti idonei in astratto a fondare il diritto azionato – bensì alla titolarità in concreto del rapporto (cfr. Cass., 3 luglio 1999, n. 6894).
Nel caso di specie parte ricorrente ha affermato la possibilità di configurare una responsabilità anche della Nexia, basando in tal modo la sua legittimazione passiva e lasciando aperto unicamente il problema della configurabilità nel merito della responsabilità della convenuta.
Che la Nexia sia mero provider, sia detto per completezza, è circostanza che emerge dalla lettura degli atti, in quanto la “visura” prodotta dalla stessa ricorrente ed ottenuta tramite il sito della Registration Authority Italiana (www.nic.it) indica la Nexia s.a.s. come mero provider (con la sigla “mnt-by”, cioè come server mantainer), laddove titolare del dominio risulta essere la Deico (indicata con la sigla “org”).
E’ noto che il provider assume il ruolo di mero gestore della rete, cioè di entità che consente ad un soggetto di accedere ad internet, di aprirvi siti (identificati appunto con il domain name), di gestirvi caselle di posta elettronica.
Ciò premesso, non mancano invero precedenti giurisprudenziali anche internazionali che hanno affermato la responsabilità del provider per gli illeciti posti in essere nei siti cui per suo tramite si può accedere e che per suo tramite hanno accesso alla rete (cfr. Trib. Napoli, 8 agosto 1997 – che ha equiparato il provider ad un organo di stampa con conseguente obbligo di controllo sul contenuto del sito – Trib. Macerata, 2 dicembre 1998 – che equipara il provider ad un editore – Cour d’Appel de Paris, 10 febbraio 1999 – che ha dichiarato la responsabilità del provider per la diffusione di fotografie lesive del diritto di immagine di terzi).
La tesi della responsabilità incondizionata del provider per ogni illecito commesso sulla Rete non appare tuttavia convincente.
In primo luogo è stata sottolineata in dottrina la improprietà di qualsiasi richiamo diretto o indiretto ai principi enunciati dalla normativa in materia di stampa, dal momento che detta normativa opera nel campo della responsabilità penale introducendo una forma di responsabilità che continua ad essere oggetto di perplessità per la sua natura “paraoggettiva”, resa accettabile solo tramite una interpretazione costituzionalmente orientata al principio di colpevolezza.
In secondo luogo non si può evitare – pena una valutazione astratta e del tutto disgiunta dal dato economico – di considerare quella che è la situazione del provider. Quest’ultimo infatti si limita a consentire l’accesso alla Rete, è il tramite di cui gli utenti (professionali o meno) di internet si avvalgono per “navigare” ed operare nella stessa. Se si considera la crescita letteralmente esponenziale che la Rete ha avuto non solo in Italia ma in tutto il mondo, pretendere dal provider un controllo sulle informazioni che per suo tramite vengono smistate agli utenti di internet, significa semplicemente entrare in palese conflitto con il principio ad impossibilia nemo tenetur. Anche volendo mascherare la responsabilità del provider sotto l’etichetta della culpa in vigilando, detta responsabilità sarebbe di fatto una responsabilità oggettiva legislativamente non tipizzata, non potendosi in alcun modo immaginare mezzi concreti attraverso i quali il provider potrebbe effettuare la propria vigilanza, considerato anche che il monitoraggio dovrebbe essere costante, visto che ogni sito è modificabile in qualsiasi momento. Si pensi al solo caso della violazione di marchi: per ogni domain name il provider dovrebbe verificare l’assenza non solo in Italia ma anche all’estero di marchi o domain names simili appartenenti a soggetti esercenti attività imprenditoriale in settori affini a quello in cui opera il titolare del sito.
Neppure può essere sottaciuta una considerazione basata su una semplice analisi costi – benefici. La maggior parte dei providers attuali fornisce alla generalità degli utenti un servizio di accesso gratuito. L’introduzione di una forma di responsabilità del provider per tutti gli illeciti commessi tramite o comunque in internet, comporterebbe una lievitazione dei costi del servizio del provider, lievitazione che verrebbe di fatto riversata sulla generalità degli utenti (sotto forma di costi di abbonamento). Ciò per tacere del pericolo che il (prevedibile) incremento delle azioni di responsabilità nei confronti del provider (spessissimo assai più solvente del titolare del sito, che in molti casi è un privato con scarsissime risorse), comporti di fatto il blocco della Rete.
Appare quindi condivisibile quella giurisprudenza più recente (Trib. Roma, 22 marzo 1999; Trib. Cuneo, 23 giugno 1997; Trib. Roma, 4 luglio 1998) che ha escluso la responsabilità del provider salva l’eccezione dei casi in cui l’illecito sia palese e rilevabile con l’ordinaria diligenza (si pensi al caso di utilizzo come domain name di un nome costituente marchio celebre).
Del resto anche la giurisprudenza statunitense – che per ovvie ragioni ha avuto modo di occuparsi maggiormente del tema – sta progressivamente approdando alla conclusione di esentare il provider da responsabilità per gli illeciti commessi sulla Rete. Basti qui citare i due casi Cubby v. CompuServe (n. 90 Civ. 6571 United States District for the Southern District of New York 29 ottobre 1991), nel quale la Corte ha assimilato il provider al rivenditore di riviste e non all’editore, escludendo conseguentemente la responsabilità per la pubblicazione di materiale diffamatorio in newsgroups o forum; e Stratton Oakmont v. Prodigy (n. 31063/94 Supreme Court of New York ,10 maggio 1995), in cui la responsabilità del provider è stata affermata unicamente perché nel caso di specie il provider aveva spontaneamente attivato un sistema automatico di filtraggio, abbandonando quindi il proprio ruolo di operatore tecnico ed assumendo direttamente il compito (e le responsabilità) di un direttore di testata giornalistica.
Anche la giurisprudenza europea è ormai avviata ad escludere la responsabilità “per posizione” del provider, ammettendo che quest’ultimo possa essere chiamato a rispondere degli illeciti commessi sulla Rete solo quando abbia diretta conoscenza dell’illecito o comunque ne possa venire a conoscenza con ordinaria diligenza: così la Corte Distrettuale dell’Aja con la sentenza 12 marzo 1996, 96/160 ha escluso la responsabilità del provider per la violazione del copyright commessa da un newsgroup.
Indubbiamente nulla vieta che il legislatore introduca normativamente forme di responsabilità anche oggettiva del provider e ciò sembra già essere avvenuto ad esempio negli Stati Uniti con il Winsconsin Bill Act 852 del 1996, che ha equiparato la posizione del provider a quella dell’editore. Tuttavia finché non intervenga in tal senso una precisa normativa, non pare che vi siano strumenti normativi per affermare la responsabilità del provider eccettuati i casi di consapevolezza dell’illecito o di conoscibilità del medesimo.
Suggestioni in tale senso vengono anche dal DDL sui domain names 5 marzo 2001 approvato in Commissione al Senato il cui art. 4, comma 4, dispone testualmente che “il titolare del dominio è l’unico responsabile dei contenuti dei siti consultabili attraverso lo stesso. I soggetti che svolgono i servizi di provider e di mantainer, ed ogni altro per semplicemente consentire l’accesso alla Rete internet o ad altre reti telematiche, rispondono in solido con il titolare del dominio nel solo caso in cui sia derivata per fatto doloso o colposo loro imputabile l’impossibilità o la grave difficoltà di individuare o identificare il medesimo o lo spazio su cui il sito è collocato”, così confermando la tendenza ad operare l’esenzione del provider da responsabilità con l’eccezione dei soli casi nei quali a quest’ultimo sia addebitabile una condotta ulteriore rispetto a quella della semplice concessione di accesso ad internet. Si tratta di una disciplina simile (anche se non identica) a quella adottata ad esempio in Germania con la luKDG (Gesetz zur Regelung der Rahmenbedigungen für Informations – und Kommunicationsdienste), la quale anch’essa condiziona la responsabilità del provider alla conoscenza diretta dell’illecito.
Affermati tali principi va verificato se nel caso di specie sia riscontrabile una conoscenza o conoscibilità da parte della Nexia dell’illecito dedotto da parte ricorrente.
Il fatto che la Nexia abbia come accomandatario lo stesso Daniele Villa che è titolare della Deico, titolare del sito è circostanza che è sufficiente a fondare – a giudizio di questo Tribunale – la astratta responsabilità del provider convenuto. Le caratteristiche dei due soggetti coinvolti (ditta individuale ed s.a.s. con soli sette soci ed un unico accomandatario) rivelano invero uno stretto legame (probabilmente anche imprenditoriale) tra i due soggetti e configurano quell’elemento indiziario che – almeno nella cognizione sommaria tipica del procedimento cautelare – permette di affermare la sussistenza di una situazione di conoscenza o conoscibilità della condotta di Deico da parte di Nexia s.a.s., considerata in particolare la coincidenza tra il titolare dell’impresa individuale Deico e l’accomandatario della Nexia (il sig. Daniele Villa, appunto).
Ne consegue che la Nexia può essere considerata – una volta verificata la sussistenza di tutti gli altri presupposti – concorrente nella condotta illecita lamentata dalla ricorrente, sia che essa sia qualificata come contraffazione di marchio (potendosi ritenere che la condotta del provider che consapevolmente consente la violazione dell’altrui marchio costituisca condotta atipica rientrante nella previsione generale di uso illegittimo di cui all’art. 1 legge marchi: cfr. Trib. Roma, 1° marzo 1999) sia che essa venga qualificata come concorrenza sleale (sul concorso del terzo nell’illecito di cui all’art. 2598 cfr. Cass., Sez. Un., 15 marzo 1985, n. 2018; Cass., sez. I, 4 febbraio 1981, n. 742; Trib. Trento, 7 dicembre 1999; Trib. Napoli, 8 agosto 1997).

3. – Sull’assenza di una corrispondenza tra marchio e domain name
I convenuti hanno anche contestato l’esistenza di un collegamento tra marchio e domain name, negando conseguentemente che l’impiego dell’altrui marchio come nome di un sito internet possa essere qualificato come lesione del diritto al marchio o come condotta di concorrenza sleale. Sostengono in particolare i convenuti che il domain name costituirebbe un mero indirizzo telematico, non corrispondente al marchio.
Prima di passare all’esame dell’eccezione va premesso che effettivamente vi è sostanziale corrispondenza testuale tra il marchio di cui la ricorrente è licenziataria (“Doctor Glass”) ed il nome del sito aperto dalla Deico di Villa Daniele (“www.doctorglass.it”, peraltro presentato nella promozione pubblicitaria effettuata sul medesimo sito nella forma grafica ancora più imitativa “www.Doctor Glass.it”).
Sul piano del giudizio di confondibilità nessun rilievo possono avere né il fatto che nel sito della convenuta compaia come parte terminale della “stringa” identificativa il suffisso “it.”, né il fatto che il sito “ufficiale” della ricorrente abbia il suffisso “com.” (“www.doctrorglass.com”). Infatti la parte terminale della stringa alfanumerica di una Homepage costituisce unicamente il domain name di primo livello (o Top Level Domain Name: TLDN) e vale quindi ad indicare solo il dominio di livello più generale, entro il quale si raggruppano anche migliaia di siti internet. Il TLDN, di conseguenza, vale solo ad indicare o la nazionalità del sito (“it” per Italia; “fr” per France; “eu” per Europa, nel caso dei siti ufficiali dell’Unione Europea) o (soprattutto negli Stati Uniti) la natura del soggetto titolare del sito (“com”, per i siti a scopo commerciale; “gov”, per i siti del governo; “edu”, per i siti universitari) e non può costituire elemento effettivamente distintivo per gli utenti di internet. Esso rileva quindi solo come elemento della stringa da digitare per raggiungere un sito, ma non fornisce elementi sulla identità del titolare del singolo sito. Ciò che invece vale ad identificare veramente il sito per la generalità degli utenti che utilizzano internet è il Secondary Level Domain Name (SLDN) e cioè il nome che identifica la homepage del sito e che svolge la prevalente funzione distintiva agli occhi soprattutto dei consumatori, i quali sono naturalmente portati a cercare il sito di una impresa commerciale digitando una stringa alfanumerica corrispondente al marchio dell’impresa medesima. A conferma di ciò è la notoria circostanza della tendenza attuale di tutte le imprese ad “aprire” siti internet utilizzando come SLDN il proprio nome o marchio, tendenza che ha avuto anche strascichi giudiziari non solo per vicende in cui veniva dedotta – come nel caso in esame – la violazione di marchi o del diritto di autore, ma anche per casi di mera registrazione fraudolenta di marchi o nomi famosi effettuata prima che vi provvedessero i legittimi titolari (c.d. domain name grabbing o cybersquatting).
Ne deriva che, da un lato, la presenza sul sito del TLDN non vale ad operare distinzione rispetto al marchio registrato e, dall’altro lato, che la diversità di TLDN non deve ritenersi sufficiente (almeno nel caso della generalità degli utenti, raramente esperti, considerato che internet è una realtà in continua diffusione presso un pubblico sempre più ampio e conseguentemente sempre meno dotato di conoscenze tecniche specifiche) a distinguere due siti che presentino un SLDN identico, come nel caso in esame, o comunque facilmente confondibile (cfr. Trib. Milano, 3 giugno 1997).
Svolta tale premessa, il Tribunale potrebbe forse limitarsi a richiamarsi il numero sempre crescente (in modo esponenziale) delle pronunce della giurisprudenza di merito che – in presenza, naturalmente, degli altri requisiti stabiliti dalla legge – hanno ritenuto sussistente la violazione del marchio nell’ipotesi di uso del medesimo da parte di terzi quale domain name (cfr. Trib. Monza, 25 novembre 2000; Trib. Viterbo, 24 gennaio 2000; Trib. Verona, 21 luglio 1999; Trib. Verona, 25 maggio 1999; Trib. Verona, 14 luglio 1999; Trib. Macerata, 2 dicembre 1998; Trib. Vicenza, 6 luglio 1998; Pret. Valdagno, 27 maggio 1998; Trib. Roma, 2 agosto 1997; Trib. Milano, 10 giugno 1997; Trib. Milano, 22 luglio 1997).
Peraltro poiché la tesi della convenuta richiama una recentissima pronuncia di merito, pare opportuno esaminare la tesi che cerca di accreditare il domain name come mero indirizzo, negando la “incidenza” del medesimo sul marchio ed approdando alla conclusione della “non illiceità” dell’appropriazione dell’altrui marchio per denominare un proprio sito.
La tesi non convince, nel momento in cui si consideri il valore commerciale assunto da internet e dai siti presenti nella Rete. Allo stato attuale internet è divenuto per tutte le imprese commerciali uno strumento fondamentale di contatto con la generalità degli utenti e dei consumatori, e si appresta a divenire il veicolo principale di autopresentazione di una impresa sul mercato, in quanto, a differenza degli altri mezzi mediatici, permette non solo di promuovere l’impresa medesima con la “normale” pubblicità, ma anche di offrire servizi ausiliari e di stabilire un contatto diretto con i singoli utenti – consumatori. Questi ultimi, peraltro, come già detto, sono in numero sempre maggiore ma dotati di conoscenze tecniche medie ridotte e sono conseguentemente portati a cercare il sito di una impresa utilizzando quello che è lo strumento identificativo per eccellenza dell’impresa medesima: il suo marchio. In altri termini la identificazione tra marchio e domain name, anche se non sempre effettiva ed anche se non tutelata da alcuna norma espressa, è già una realtà di fatto per il pubblico dei consumatori. Ne deriva che il domain name cessa di essere un mero indirizzo e diviene in realtà l’equivalente cibernetico dell’insegna o comunque di un segno distintivo, cercato dal consumatore che richieda un determinato prodotto, e come tale idoneo ad attirare il consumatore medesimo.
E’ allora evidente che l’impiego dell’altrui marchio come domain name costituisce “uso del segno identico al marchio” per la promozione di un bene o di un servizio e che, conseguentemente, qualora detto bene o servizio sia identico o affine al prodotto o servizio offerto dal titolare del marchio, si rientra pienamente nell’ipotesi di cui, rispettivamente, all’art. 1 lett. a) ed all’art. 1 lett. b) della Legge Marchi.
Ben poca rilevanza – a questi fini – può avere lo stabilire se il domain name vada qualificato come marchio di fatto, come insegna o come segno atipico, considerato il principio di unitarietà dei segni desumibile dal disposto di cui all’art. 13 Legge Marchi (si veda negli stessi termini l’ordinanza di questo tribunale in data 25 novembre 2000).

4. – Sull’assenza di originalità del marchio “Doctor Glass”
Circa l’eccezione di difetto di originalità del marchio “Doctor Glass”, va ricordato come sia principio ormai consolidato quello per cui la originalità del marchio deve esser valutata esaminando il marchio medesimo nel suo complesso e non scindendo le singole componenti di esso. Conseguentemente, la capacità distintiva di un marchio può fondarsi anche su una combinazione di parole che, singolarmente prese, risalgono ad un uso generale, ma che nel loro insieme, sono in grado di dar vita ad un’espressione in quanto tale originale e perciò dotata di capacità distintiva, costituendo tale valutazione questione di fatto, che spetta all’accertamento del giudice di merito (Cass., sez. I, 8 gennaio 1998, n. 91; Cass., sez. I, 12 marzo 1997, n. 2223; Cass., sez. I, 9 agosto 1991, n. 8691).
Orbene, nel caso di specie, se i due termini formanti il marchio della ricorrente (ed in particolare il termine “Glass”) sono, presi individualmente, effettivamente generici, la loro combinazione pare sicuramente idonea a costituire un marchio caratterizzato da sufficiente capacità individualizzante. Si tratta, certamente, di una capacità priva di caratteristiche tali da consentire la qualificazione del marchio come “marchio forte”, ma nel caso di specie il problema della debolezza del marchio è automaticamente superato dal fatto che il domain name oggetto del contendere, riproduce fedelmente il marchio della ricorrente, senza apportarvi variazioni e che, conseguentemente, non si pone neppure la questione circa la necessità di dare applicazione alla tutela “allargata” al “nucleo ideologico” elaborata per il marchio forte.

5. – Sull’assenza di affinità tra i prodotti offerti dalle parti in causa
I convenuti hanno altresì eccepito l’assenza di una effettiva coincidenza o affinità tra i prodotti offerti sul sito della ricorrente e di quelli offerti sul sito oggetto del contendere.
L’eccezione va esaminata, a parere del tribunale, sotto due profili, peraltro tra loro connessi:
– il primo è quello specifico dei beni o servizi offerti sui due siti: mentre infatti il sito della ricorrente è specificamente dedicato a quello che è il settore commerciale della Doctor Glass Group s.r.l. (e cioè la riparazione di vetri e cristalli per automezzi), il sito aperto dalla Deico di Villa Daniele sarebbe destinato – per usare le parole impiegate nella comparsa di costituzione e risposta – “un contenitore degli “specialisti del vetro” in ogni settore, rivolto ai fabbricanti, artigiani e produttori di vetro in genere e in ogni ambito nel quale tale materiale possa avere delle utili applicazioni (…)”;
– il secondo – connesso come detto al primo – è costituito dal fatto che nel sito di parte convenuta non si avrebbe una offerta diretta di prodotti, bensì una offerta pubblicitaria, mediante l’inserimento di banners, links ipertestuali o mere pubblicità attraverso i quali l’utente del sito verrebbe “indirizzato” verso altri siti gestiti da aziende operanti nel settore del vetro.
Il primo degli aspetti in questione è quello che presenta minori problemi.
Invero il fatto che la ricorrente operi in uno specifico settore della produzione di vetri o cristalli non può di per sé valere ad escludere l’illecito dedotto, se si considera la palese affinità tra il settore in cui opera la Doctor Glass Group s.r.l. ed i settori commerciali in cui operano le imprese che dovrebbero “approdare” sul sito del convenuto. La contiguità tra produzione di cristalli per autoveicoli e produzione di cristalli in altri settori, anche specializzati, è tale da creare il rischio di confusione per il pubblico oggetto della previsione di cui agli artt. 1 lett. b) e 13 legge marchi. Peraltro si osserva – e la circostanza sarà oggetto di ulteriore approfondimento in prosieguo – che il sito di parte convenuta è tuttora in fase di completamento e che è destinato genericamente ad accogliere imprese operanti nel settore del vetro e dei cristalli, senza limitazione alcuna. Appare quindi evidente che il sito non è precluso all’accesso anche da parte di imprese operanti nello stesso settore merceologico della ricorrente. Vi è quindi il pericolo (non negato in alcun modo da parte convenuta) che sul sito vengano pubblicizzati, direttamente o tramite links, proprio servizi di installazione o riparazione di cristalli per autoveicoli, con conseguente ricaduta addirittura nella ipotesi di cui alla lett. a) dell’art. 1 Legge Marchi.
Di maggiore complessità è il secondo profilo.
Come già accennato, il sito di parte convenuta è tuttora in via di allestimento e le sue caratteristiche possono essere desunte solo dalla documentazione prodotta dalla Nexia s.a.s., e cioè dalla “stampata” della homepage e dal progetto scritto del sito con l’indicazione della struttura. Da detti documenti si evince che il sito www.doctorglass.it è (come testualmente indicato nella descrizione) un “portale”, cioè (per indicare una definizione non tecnica) un sito tramite il quale l’utente di internet può individuare od essere indirizzato verso altri siti di suo interesse. Un sito, dunque, che ha come funzione primaria quella della ricerca od offerta di altri siti. E’ notoria la diffusione che hanno sul piano commerciale siti aventi le caratteristiche del portale o del motore di ricerca, così come è notorio che detti siti si mantengono economicamente e producono utili in virtù della pubblicità che su di essi viene fatta di solito mediante banners, e cioè riquadri con immagini e nomi, aventi la caratteristica del link ipertestuale, di modo che l’utente “cliccando” sul banner viene automaticamente reindirizzato sul sito corrispondente.
Il sito oggetto del contendere ha appunto tali caratteristiche, come risulta anche dalla presentazione della homepage in allestimento, nella quale si afferma testualmente “presto avrete la possibilità di vedere i vostri indirizzi commerciali pubblicati su Internet”.
Si pone allora il problema della presenza di uno iato tra il sito che presenta il domain name che configura la violazione del marchio ed il sito (avente nome probabilmente diverso e quindi del tutto privo di idoneità confusoria) in cui vengono offerti i prodotti o servizi commercialmente identici o affini a quelli offerti dal titolare del marchio.
Ritiene il Tribunale di dover aderire all’orientamento – sia della dottrina sia della giurisprudenza – che configura il link ipertestuale come “strumento di estensione della gamma di prodotti offerti dal sito di partenza, che finisce con il comprendere mediatamente anche prodotti pubblicizzati in siti diversi” (per mutuare l’espressione utilizzata in uno studio sull’argomento). L’automaticità di trasferimento del link permette, in sostanza, di affermare che possono ritenersi offerti su un sito internet tutti quei prodotti che sono pubblicizzati su altri siti comunque raggiungibili da quello di partenza mediante links ipertestuali.
A tali conclusioni, peraltro, la giurisprudenza di merito è approdata già in due occasioni. La prima è costituita dalla pronuncia del Tribunale Milano, 22 luglio 1997, anch’essa relativa ad un portale (anche se definito provider). In detta ordinanza il Collegio ha affermato la sussistenza di una affinità di prodotti o servizi in ogni ipotesi di nesso di “strumentalità tra il servizio reso dall’asserito contraffattore e quello effettuato (autonomamente) da altro imprenditore, direttamente e specificamente concorrente con il titolare del marchio”, concludendo che il collegamento tramite links ipertestuali caratterizzava il servizio offerto dal sito di partenza contraffattore come fase preliminare dell’accesso al sito in cui veniva offerto il servizio affine. Alle stesse conclusioni è approdata l’ordinanza emessa da questo Tribunale in data 25 novembre 2000, nella quale si è approdati alla conclusione che “l’utilizzo dei links ipertestuali consenta di ricollegare l’utilizzo del segno direttamente alle altre espressioni dell’attività imprenditoriale della resistente, senza confinare il giudizio sull’affinità merceologica all’ambito delle offerte commerciali immediatamente operate nel sito; infatti ciò che distingue il link dalla mera citazione è proprio la capacità dello stesso di realizzare immediatamente il collegamento e l’accesso del visitatore ad altro sito, senza gravare lo stesso di ulteriori oneri di ricerca (…)”.
Ne consegue che l’eccezione di parte convenuta deve essere disattesa: alla luce delle considerazioni svolte il sito www.doctroglass.it offre – con un domain name identico al marchio della ricorrente – servizi affini a quelli offerti dalla Doctor Glass Group s.r.l..
Ritenuta conseguentemente sussistente la fattispecie di cui all’art. 1, lett. b), Legge Marchi, può osservarsi – senza pronunciarsi direttamente sul problema dell’ammissibilità di una tutela cumulativa o alternativa (su cui cfr. Cass., sez. I, 13 dicembre 1999, n. 13916; Cass., sez. I, 25 settembre 1998, n. 9617) – che paiono ricorrere, almeno in via alternativa, anche i presupposti per l’applicazione del disposto di cui all’art. 2598, n. 1, c.c. Non vi sono dubbi, infatti, sulla identità dei segni adottati da entrambe le parti e, quanto alla confondibilità sul piano merceologico, valgono le considerazioni già svolte sulla corretta identificazione dell’ambito di beni o servizi complessivamente offerti (tramite i links) sul sito di parte convenuta. Indubbia è poi la sussistenza di univoci profili indiziari circa la presenza in capo ai convenuti dell’elemento soggettivo almeno della colpa, considerato il fatto che la società ricorrente opera su tutto il territorio italiano e fa parte di un ristretto gruppo di imprese specializzate, sì che la sua conoscibilità appariva di agevole acquisizione per chiunque (come la Deico) si apprestasse ad aprire siti commerciali dedicati al settore di vetri e cristalli.

6. – Sul periculum in mora
Alla luce delle considerazioni svolte sinora appare palese la sussistenza del periculum in mora. Parte convenuta sta infatti già utilizzando il marchio della ricorrente come domain name di un sito destinato alla pubblicità di prodotti merceologicamente affini (e forse – come ipotizzato in precedenza – anche identici) a quelli offerti dalla Doctor Glass Group s.r.l., al punto che, una volta attivati links ipertestuali, la confondibilità tra la società ricorrente e le imprese collegate al sito sarà pressoché totale, potendo l’utente medio ritenere che tutte le imprese raggiungibili tramite il sito siano riconducibili alla Doctor Glass Group s.r.l..
E’ palese, allora, che nelle more del giudizio di merito, il protrarsi di tale situazione potrebbe condurre ad una ingente e difficilmente recuperabile (o risarcibile) perdita di clientela per la ricorrente. Perdita evidente, se si considerano ancora una volta le potenzialità commerciali di internet ed il numero (astrattamente elevatissimo) di contatti che ciascun sito del World Wide Web può avere.

7. – Conclusioni
Il fatto che nel caso di specie si sia ritenuto sussistente un coinvolgimento diretto del provider, comporta come conseguenza la necessità di indirizzare l’inibitoria anche alla Nexia s.a.s..
Naturalmente il contenuto sarà diverso per il provider e per il titolare del sito, in quanto mentre per quest’ultimo il provvedimento deve avere come contenuto l’ordine di astenersi dall’utilizzare il segno “Doctor Glass”, od altri simili, come domain name di secondo livello riferiti a siti web comunque da lui organizzati od a lui riferibili e di chiedere la cancellazione della registrazione del DN www.doctoglass.it, per il provider l’ordine sarà quello di impedire la connessione tramite la Rete al sito www.doctorglass.it..
Entrambi i convenuti, in sede di discussione, hanno prospettato in via subordinata la possibilità che il contenuto del provvedimento cautelare si riduca all’inserimento nel sito in contestazione di un banner che consenta il collegamento diretto al sito della ricorrente. Si tratta di una “soluzione” che non può essere accolta: con essa la situazione di illiceità ben lungi dall’essere rimossa verrebbe aggravata, in quanto la presenza del banner persuaderebbe gli utenti del sito della affinità tra le imprese in esso presenti e della riconducibilità del sito stesso alla ricorrente. E’ quindi palese che con la soluzione proposta dai convenuti si accrescerebbe la situazione confusoria che è invece motivo delle lagnanze della Doctor Glass Group s.r.l. Il sito oggetto del contendere (o meglio l’uso del domain name corrispondente al marchio della ricorrente) riceverebbe agli occhi dei consumatori una sorta di legittimazione di fatto.
Unica soluzione è quindi l’inibitoria all’uso del domain name www.doctorglass.it o di domain name simile per il sito in questione ed il conseguente ordine di presentazione alla Naming Authority dell’istanza di cancellazione della registrazione di detto domain name.
Non sussistono i presupposti per l’accoglimento dell’istanza di pubblicazione del provvedimento, dal momento che non vi è prova del fatto che il sito web in questione abbia avuto una diffusione tale da rendere necessaria la pubblicazione del provvedimento su quotidiani e periodici a tiratura nazionale e di massima diffusione. Vi sarebbe stato astrattamente spazio per un ordine di inserimento coatto del provvedimento sulla homepage della resistente. Tuttavia in assenza di una espressa istanza in tal senso il Tribunale deve astenersi dal provvedere in tal senso.

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