Interlex n. 65
La notizia è pubblicata sul Corriere della Sera del 14 novembre scorso: un Noto, sacerdote del siracusano, balzato agli onori della cronaca per le raffiche di denunce dirette a reprimere i siti ospitanti “contenuti critici”, non pago degli scarsi successi riportati dalle forze dell’ordine, decide di farsi giustizia da sé, precettando un gruppo di sedicenti “hacker” da utilizzare come braccio secolare per una crociata contro pervertiti di varia natura.
La notizia è molto grave, non solo per l’inciviltà giuridica della quale è foriera (nessuno è al di sopra della legge), ma anche per i riflessi diretti che può avere sulla Rete.
Mi auguro che gli organi competenti non rimangano immobili di fronte ad un simile inno al vigilantismo (e ai reati che potrebbe configurare), atto le cui risalenti origini – intelligenti pauca – evidenziano ancora una volta la percezione distorta della Rete che si cerca a tutti i costi di legittimare. Ciò a scapito del sempre più consistente numero di operatori (non solo quelli economici) che intendono trarre dall’internet nuove occasioni di incontro e attività.
Se siamo d’accordo sul fatto che prese di posizione come quella appena raccontata arrecano danno all’intero sistema, è anche vero che il mondo produttivo e quindi le associazioni che lo rappresentano sembrano ignorare la gravità della questione.
Questi pazzeschi richiami alla violenza sono solo alcuni dei problemi che agitano la Rete, problemi sempre maggiori e gravi: non è pensabile che il mondo del business continui a fare orecchie da mercante. Solo con una presa di posizione forte di chi aspira a rappresentare gli interessi della categoria e la collaborazione con i gruppi di utenti che da sempre hanno come obiettivo quello della crescita di una “cultura della Rete” si potrà cercare di arginare il malcostume dilagante della violazione di principi giuridici elementari e della netiquette (un vero e proprio codice di “diritto consuetudinario”, che si manifesta nei modi più disparati.
Uno dei più famigerati è sicuramente lo spamming cioè l’invio, a liste di utenti, di messaggi non sollecitati dai contenuti più diversi, dalle catene di S. Antonio alla pubblicità. Se dal punto di vista culturale ci sono buoni motivi per criticare questo comportamento (che tuttavia non è necessariamente da considerare negativo – vedi La pressatella e il rullo compressore di Giancarlo Livraghi) è anche vero che ci sono alcune considerazioni di natura giuridica che non possono essere taciute.
E’ illegale fare spamming?
Di primo acchito la risposta è – nonostante l’entrata in vigore della legge sui dati personali – paradossalmente negativa. Gli indirizzi che girano su Usenet o che vengono diffusi su carta intestata, pubblicità e pagine web sono dati conoscibili da chiunque e quindi sottratti a consenso e notificazione; quando poi non si può associare univocamente l’indirizzo ad una persona (chi mai sarà ppp34s3@pippo.com??) forse non siamo nemmeno in presenza di “dati personali” in senso tecnico, ad ennesima dimostrazione di quanto la 675/96 tutto protegga tranne la privacy
Il fatto è che l’algidità della legge scritta (la law in the book, come la chiamano i cultori del diritto pubblico) posto comunque che se ne possa parlare in relazione al caso di specie, mal si concilia con l’applicabilità pratica. Molto spesso gli spammer scrivono da un indirizzo che cessa di funzionare poco tempo dopo, oppure utilizzano mail server di terze parti sfruttandone dei difetti di programmazione non corretti per tempo… insomma, non è detto che il colpevole sia così facile da trovare, con buona pace della migliore delle leggi possibili (e la 675/96 sicuramente non appartiene alla categoria).
Al furor che anima la privacy advocacy si oppone un normativismo che procede con tassi di sviluppo tumorali e che – ad esempio – fa dire all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 171/98: I fornitori di servizi di telecomunicazioni accessibili al pubblico consentono che i servizi richiesti e le chiamate effettuate da qualsiasi terminale possano essere pagate con modalità alternative alla fatturazione, anche anonime, quali le carte di pagamento o prepagate.
Tradotto: accessi anonimi a qualsiasi servizio internet…. buon rimedio per la protezione della privacy, pessima soluzione per la tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali
Il tema dell’anonimato è complesso, e sicuramente non può esaurirsi in così poche battute, certo è che guarderei preoccupato l’estendere all’internet le disposizioni contro la criminalità organizzata, che impongono l’identificazione dei titolari delle carte prepagate della telefonia cellulare….
Tant’è, niente di nuovo sotto il sole… norme confuse e contraddittorie.
Che fare?
La soluzione teorica esiste, ed è realizzare in qualche modo quella che Paolo Nuti chiamava la “catena del freddo”, cioè una modalità organizzativa nell’erogazione dei servizi che va dall’identificazione dell’utente fino alla certificazione dei log, che consenta sempre e comunque all’Autorità Giudiziaria o ad eventuali organi di autodisciplina di individuare responsabili e valutare le diverse situazioni.
Il punto è mettersi d’accordo sul “come”.
Credo oramai essere opinione acquisita che non serve una legge specifica quanto piuttosto una ragionevole e ragionata autodisciplina di settore. Purtroppo i tentativi registrati fino ad ora hanno dato risultati in alcuni casi desolanti (dal punto di vista delle scelte di fondo e delle formulazioni concrete) e il discorso iniziato tempo fa, anche con il contributo di questa rivista (vedi l’indice Tra legge e autodisciplina e le interviste a Rodotà e Manganelli della fine di luglio) è finito – in ottima compagnia – in chissà quale dimenticatoio.
Aiutati che Dio t’aiuta, si diceva una volta, e l’occasione buona per “aiutarsi” potrebbe essere l’imminente conferenza dell’AIIP, che ha messo all’ordine del giorno anche il problema dell’autodisciplina. Staremo a vedere.
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