All’epoca dei fatti Linkedin e i media generalisti furono inondati da commenti su quella che era solo un’ipotesi (il coinvolgimento della Russia nel condizionare il risultato delle elezioni americane), con la pletora di implicazioni su eserciti di troll comandati a bacchetta – pardon, a tastiera – per manipolare le coscienze ecc. ecc. Tutto finto, ma i danni provocati da quella notizia sono piu’ che reali.
Mi riferisco, in modo particolare, alle imbarazzanti dichiarazioni istituzionali sulla gravità di un fatto inesistente, per nulla mitigate dagli inevitabili “se confermata, la notizia sarebbe grave”. Fortuntatamente la diplomazia internazionale è ancora sufficientemente funzionante per evitare le conseguenze della “frenesia da social” che ha contagiato anche le Istituzioni e che spinge i suoi rappresentanti a parlare troppo in fretta.
Dal punto di vista della comunicazione, invece, l’aspetto interessante è che la notizia del Russiagate non era falsa, ma è stata presentata e recepita per quello che non era: una certezza, invece di un’ipotesi. E nella mente dei giornalisti e dei lettori, da verosimile è diventata vera, e dunque certa.
Guardando la vicenda del Russiagate da un punto di vista accademico, si potrebbero fare tanti discorsi sul ruolo del giornalismo e dell’informazione professionale, su cosa sia, come si costruisce e come si diffonde una notizia e su come, oramai, la notizia del sospetto equivalga alla conferma della condanna, senza indagini, senza processo, senza diritti.
Osservando con quello che potremmo chiamare “occhio cinico”, invece, si percepisce un’immagine differente, fatta di disinteresse per i fatti e di avida ricerca di “numeri” (click, like, share) e “fama”. O più prosaicamente, di “return of investment” in pubblicità.
Breve: a chi importa veramente se la Russia abbia manipolato le elezioni americane?
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