L’incidente che ha coinvolto una supercar noleggiata da un collettivo di youtuber romani per riprendere l’ennesima challenge e un’utilitaria nella quale ha perso la vita un bambino di cinque anni ripropone l’ennesima variazione sui temi tragicamente caratteristici dell’economia basata su like e visualizzazioni che spinge a commettere atti sempre più estremi, come nel caso del disastro aereo provocato da uno youtuber nel 2021 che ora lo espone al rischio di una condanna a vent’anni di reclusione di Andrea Monti – inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
Gli accertamenti sulla dinamica dell’incidente romano diranno come sono andati i fatti dal punto di vista —come si dice in gergo— della cinematica, cioè della descrizione fisica dell’accaduto. Il video diffuso da chi si trovava all’interno della supercar che documenta le offese gratuite alla conducente dell’utilitaria, consente, invece, di fare alcune considerazioni sul ruolo dell’economia dei like in rapporto alla determinazione dei comportamenti individuali e sul senso di irresponsabilità derivante dal pretendere che i propri desideri siano diritti che tutti devono rispettare.
Detta in altri termini: le conseguenze tragiche di un gesto estremo commesso per un pugno di like sono veramente solo responsabilità di chi lo commette, oppure è il momento di domandarsi se non ci sia una qualche colpa per istigazione in chi progetta modelli di business basati sulla monetizzazione dei contenuti basata sul numero di like e visualizzazioni per unità di tempo? E se è arrivato il momento di colpire un uso spregiudicato dell’economia dei like, non sarà anche il momento di domandarsi, dall’altro lato, se non sia ora di consentire alle piattaforme di bloccare in autonomia un contenuto o addirittura prevedere comportamenti pericolosi degli utenti? Tradotto fuori da ogni ipocrisia: siamo disposti a sacrificare privacy e libertà di espressione —cioè diritti individuali— per consentire la tutela della collettività accettando che ci pensino direttamente soggetti privati?
Un percorso del genere è estremamente pericoloso e incerto perché è impossibile fissare un limite automatico oltre il quale la necessità di tutela collettiva prevale sul diritto dei singoli di rimanere anonimi o di esprimersi come meglio credono. In questo viaggio, la svolta autoritaria sarebbe sempre dietro l’angolo. Dobbiamo però verificare se è ancora sostenibile il principio di non responsabilità delle piattaforme affermato sin dai tempi della direttiva comunitaria 31/00 sull’e-commerce e che limitava il loro dovere a segnalare eventuali problemi alle “autorità competenti” disinteressandosi del “prima” e del resto.
Una posizione del genere poteva avere senso in un modello industriale sostanzialmente “neutro” rispetto ai comportamenti degli utenti e in effetti la direttiva già faceva la differenza fra chi non interveniva nel modo in cui le persone fruivano di determinati servizi e chi, invece, aveva un ruolo attivo. Oggi abbiamo il Digital Service Act comunitario, che non migliora di molto la situazione anzi, per certi versi deresponsabilizza ancora di più lo Stato dal dovere di intervenire.
Nel corso degli anni il dibattito sulla “responsabilità degli intermediari” che si è scatenato dentro e fuori le corti (non solo) italiane ha riguardato essenzialmente la consapevolezza o meno della presenza di contenuti illeciti su una determinata piattaforma online. Dunque, si è detto, se la piattaforma non ha un dovere di controllo preventivo di quello che fanno gli utenti, può essere responsabile della violazione di legge solo se viene messa effettivamente a conoscenza di comportamenti illegali tenuti da chi la usa.
Da (più di) qualche tempo, però, la discussione si è spostata ad un altro livello, e cioè quello della deliberata manipolazione dei contenuti da parte delle piattaforme in funzione della profilazione degli utenti. Il tema è arcinoto e quindi non è il caso di parlarne in dettaglio, se non per evidenziare che la raccolta di dati sulle persone consente di orientare i comportamenti individuali fino al punto, si dice, della vera e propria manipolazione. Il leading case è senz’altro Cambridge Analytica sul quale, però, forse l’ultima parola non è stata ancora scritta. La difficoltà di attribuire una responsabilità alla piattaforma per avere manipolato i comportamenti delle persone risiede nella sostanziale impossibilità di provare che specifici individui hanno cambiato o rinforzato le proprie idee grazie alla manipolazione. La situazione paradossale, in altri termini, è che intuitivamente si può pensare che profilando gli individui se ne possa orientare il comportamento, ma in concreto —per poter punire— si dovrebbe fornire la prova che la manipolazione sia effettivamente avvenuta caso per caso. Astrattamente non sarebbe nemmeno impossibile, ma le difficoltà pratiche per un magistrato sono evidenti. Anche in questo caso, dunque, è altamente improbabile che una piattaforma possa essere condannata per il “reato di manipolazione” (che peraltro non esiste).
Dalla manipolazione diretta, il passo successivo —ed è quello che caratterizza più di altri l’economia dei like— è proprio quello della creazione di un sistema che a priori induce le persone a comportarsi “liberamente” in modo da massimizzare gli effetti delle proprie azioni. Non possiamo certo dire che la piattaforma xyz sia direttamente responsabile perché l’utente tiziocaio35 è andato in coma etilico per avere bevuto quantità spropositate di superalcolici. Tuttavia, applicando con un po’ di coraggio una vecchia norma del codice civile sull’obbligo di “non fare danni” e i criteri del codice penale sul concorso nel reato, si potrebbe arrivare a qualche soluzione evolutiva che coinvolga anche le persone che si avvantaggiano di un sistema progettato per intossicare gli utenti.
Dunque, se le regole del gioco fanno sì che per avere (effimera) fama e (spesso pochi) soldi è necessario superare i limiti sempre e comunque, allora forse è veramente il caso di cominciare a porsi il problema del danno sociale provocato da modelli industriali basati sulla tragica convergenza fra la “Legge di Warhol” sui quindici minuti di celebrità e l’esaltazione dell’edonismo sfrenato dell’individuo, che in nome della propria soddisfazione concepisce anche la possibilità di togliere la vita a chi ha avuto l’unica colpa di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato.
E purtroppo, non in un videogame.
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