Tenet riavvolge il nastro della battaglia tra pirateria online e copyright
La diffusione pirata dell’ultimo film di Christopher Nolan riaccende il dibattito sulla tutela online delle opere d’arte, mentre il lockdown ha aumentato lo scambio illegale di Andrea Monti – originariamente pubblicato da Wired.it
Come da copione, l’uscita di un film è accompagnata dalla circolazione non autorizzata di sue copie su vari circuiti online. Anche Tenet, il successo annunciato diretto da Christopher Nolan, non è sfuggito a questo destino e il dibattito sulla “pirateria online” si è riacceso complice anche la quarantena imposta per limitare la diffusione del coronavirus.
Benché siano già esistenti parecchie norme per garantire la (giusta) tutela degli interessi economici dell’industria dell’audiovisivo, la loro applicazione è abbastanza difficile. In alcuni casi la responsabilità è diretta (ed esclusiva) di chi compie la violazione, in altri è l’intermediario che rende possibile la fruizione illecita a essere responsabile, in altri ancora la responsabilità è condivisa e, infine, potrebbe addirittura non esserci alcun illecito. Di fronte a questa conclusione, gli utenti che scaricano senza autorizzazione delle opere protette maturano la percezione di una sorta di “impunità” di fatto che vanifica la deterrenza della legge. Vediamo, dunque, di mettere ordine in una materia oggettivamente complessa.
Antefatto
Il rapporto fra internet (o meglio, fra tecnologia dell’informazione) e diritto d’autore è complesso e controverso e risale a ben prima della diffusione ubiqua della rete, grazie alla sua “televisionizzazione” resa possibile dalla standardizzazione del protocollo http (il “web”, in altri termini). In Italia i primi casi di violazione dei diritti d’autore (all’epoca però si trattava di software) risalgono al 1994 in quello che venne chiamato “Italian Crackdown” raccontato dall’omonimo libro scritto da Carlo Gubitosa e da me, insieme a Stefano Chiccarelli in Spaghetti Hacker . Due indagini delle procure di Pesaro e Torino ebbero eco internazionale per avere distrutto la telematica amatoriale italiana, largamente estranea ad azioni illecite, ma coinvolta ugualmente.
Nel 1999 la convergenza fra lo sviluppo di algoritmi di compressione (Mp3), di connessioni peer-to-peer e larghezza di banda passante messi a fattor comune da servizi come Napster accelerò la circolazione non autorizzata anche di musica e film oltre che di software. È di pochi anni dopo (2001) lo sviluppo di BitTorrent, un protocollo particolarmente efficiente per la distribuzione di file di grandi dimensioni, ancora oggi ampiamente utilizzato per distribuire software libero ma anche contenuti illeciti. Ragione per la quale il suo impiego è limitato da parte dei fornitori accesso per evitare di essere coinvolti in violazioni eventualmente commesse dagli utenti.
Lo schema delle responsabilità
Questa ultima considerazione definisce in modo preciso il tema da discutere, e cioè il rapporto fra responsabilità individuale e responsabilità dell’intermediario. Prima di analizzare il contenuto della legge italiana, è bene chiarire che il principio fondamentale in materia di responsabilità penale è che ciascuno risponde legalmente di quello che fa. Dunque, per quanto riguarda la diffusione online di opere protette, le categorie di comportamento rilevanti sono: la produzione di una copia dell’opera, la sua messa in circolazione, la sua fruizione.
Il diritto alla copia di riserva
Rispetto al primo punto, la legge sul diritto d’autore riconosce il diritto alla “copia di riserva”. È un principio pensato per il software, ma nulla vieta di estenderlo anche alle opere audiovisive, specie considerando che una volta digitalizzate non sono virtualmente distinguibili da un programma. L’unico limite al diritto alla copia di riserva è il divieto di aggirare i sistemi anticopia (se lo si fa, si commette un reato). L’utente avrebbe diritto dunque a un secondo supporto (o a scaricare nuovamente il file, in caso di acquisto online) per proteggersi dalla distruzione dell’originale? È sostenibile, ma non c’è ancora giurisprudenza sul punto. Va detto, peraltro, che il progressivo spostamento verso la fruizione in streaming di contenuti audiovisivi rende marginale la rilevanza del diritto alla copia di riserva che non si applica ai servizi, ma solo ai prodotti.
L’equo compenso (o “tassa sui supporti”)
Un’altra norma del diritto d’autore impone di applicare una “tassa” sui supporti di memorizzazione che viene girata ai titolari dei diritti d’autore come compenso per la “copia privata”. Pensata ai tempi delle videocassette, la logica della tassa sui supporti era legata al fenomeno della videoregistrazione televisiva ed è traseribile anche ai servizi di streaming online.
Una storica sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti riconobbe fin dal 1984 la correttezza della videoregistrazione di una trasmissione televisiva per uso personale. Un principio del genere è compatibile anche con la normativa italiana e dunque, sempre che lo streaming non sia on-demand, l’utente ha il diritto di registrare una trasmissione. In altri termini: se la trasmissione (anche via internet) è istantanea nel senso che o la si vede in quel momento o altrimenti non ci saranno altre possibilità, la copia personale è lecita perché i diritti d’autore sono pagati anticipatamente dalla “tassa sui supporti”. Se, invece, lo streaming è sempre disponibile (anche se a pagamento) allora il diritto alla copia personale non si applica.
La “tassa sui supporti” è stata fortemente criticata e non è certo una soluzione perfetta. Intanto, si applica potenzialmente anche a memorie di massa non destinate a contenere copie private. Inoltre, i proventi non finiscono necessariamente nelle tasche degli aventi diritto, ma vengono ripartiti sulla base di criteri che non consentono di pagare, per esempio, autori stranieri che non sono iscritti alla Siae. Infine, tutti i content creator che non fanno parte dei circuiti commerciali e che avrebbero diritto ad essere ricompensati non vedranno mai un centesimo.
La distribuzione online e la monetizzazione indiretta
Quello che non è mai consentito è la redistribuzione e la monetizzazione anche indirette del materiale audiovisivo. Il comma 1 bis dell’articolo 70 della legge sul diritto d’autore stabilisce infatti che “è consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro”.
Il concetto è rinforzato dall’articolo 171 ter della legge che punisce, al comma 2 lettera a-bis), se il fatto è commesso per uso non personale, chi “in violazione dell’articolo 16, a fini di lucro, comunica al pubblico immettendola in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore, o parte di essa”. Tradotto, pubblicare su Youtube anche solo spezzoni di opere protette (magari le parti più interessanti o spettacolari) per guadagnare con le visualizzazioni non è consentito perché si è totalmente al di fuori del concetto di uso personale.
Un principio analogo si applica anche alle piattaforme. Da tempo i titolari dei diritti hanno cercato di includere le piattaforme di content-sharing nel perimetro della responsabilità per l’utilizzo non autorizzato di opere protette. E a parte alcuni casi giudiziari, anche italiani, la difesa delle piattaforme è sempre stata quella ispirata al concetto della “neutralità dell’intermediario”.
Tuttavia, anche alla luce della sentenza di cui ha parlato Wired sulla responsabilità di Amazon per i danni provocati dai prodotti venduti tramite il marketplace, questa difesa diventa sempre meno sostenibile.
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