La possibilità di “creare” arte senza il contributo umano mette in crisi il concetto di diritto d’autore
di Andrea Monti – Audioreview n.400
All’Esposizione mondiale di Tsukuba, nel 1985, Wabot-2 – 90 chili di ferro e ingranaggi – suonò un organo Yamaha leggendo una partitura e pigiando conseguentemente la tastiera.
Qualche anno dopo, i primi Amiga riuscivano a trasformare in suoni dotati di qualche “senso” i frattali di Mandelbrot
Lo scorso 17 aprile 2018 viene diffusa la notizia secondo la quale un tribunale americano ha negato a una scimmia il diritto d’autore su un selfie che l’animale si era scattato da solo.
Che cosa hanno in comune questi eventi così distanti – non solo cronologicamente e geograficamente – fra di loro?
Risposta: il fatto che, nonostante il tempo trascoro, in tutti i casi il concetto tradizionale di diritto d’autore come valorizzazione dell’atto creativo tramite la protezione giuridica non può essere applicato anche se il risultato del funzionamento di un robot o di un animale possono avere un qualche valore “artistico”.
In altri termini, grazie alla diffusione di tecnologia dell’informazione a basso costo sufficientemente potente da consentire di sviluppare software in grado di eseguire operazioni molto complesse, è ora possibile fare cose che, un tempo, erano riservate ai “professionisti” del settore e, nel campo dell’arte e della musica, passare da strumenti passivi a produttori “autonomi” di sequenze sonore.
Parlo di “sequenze sonore” e non di musica perchè la musica implica un’atto creativo, mentre l’output di un programma non importa se tanto sofisticato da essere considerato “intelligente”, no. Il risultato può essere anche di una bellezza celestiale (come l’armonia pitagorica prodotta dal moto dei pianeti) ma non si può chiamare “musica”, cioè manifestazione di un sentimento.
Torniamo al caso del selfie scattato dalla scimmia.
Isolata dal contesto e dall’esecutore materiale dello scatto, quel selfie è una bella foto ma non ha alcun carattere creativo. Non è stata realizzata da un “impulso artistico” o da una accurata predisposizione della scena. E’ uno scatto causale, che è uscito “bene” a prescindere dalla volontà o dalla consapevolezza dell’animale. Ma rimane una bella foto.
Analogamente, l’esecuzione musicale di Wabot-2 e di tutti i suoi successori o emuli in giro per il mondo – potrà anche risultare piacevole o interessante ma, come la foto del macaco, non ha carattere creativo e non può essere tutelata dal diritto d’autore. E lo stesso vale per il generatore di musica frattale.
Le cose non cambiano con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale – la mistificazione culturale del decennio – alla quale fanno promettere di “creare” ma in realtà non fa altro che scimmiottare malamente funzioni specializzate in modo sostanzialmente deterministico.
In sintesi: è certamente possibile affermare senza ombra di dubbio che il gradimento artistico di un’opera dipende più – per quello che ci interessa in questa sede – dall’orecchio dello spettatore che dalla capacità del “maestro” elettronico.
Ma allora domandiamoci: se un pezzo “composto” ed eseguito da un computer incontra il gusto di un certo numero di persone che sono disposte a pagare per avere una copia dell’esecuzione o assistere allo spettacolo dal vivo, chi deve essere remunerato e per quale ragione?
Partiamo dalla risposta alla seconda domanda: se affrontiamo il tema dalla prospettiva del diritto d’autore, il “creatore” non è certo la macchina che ha prodotto i suoni e altranto certamente non è il proprietario/programmatore del robot.
Poco importa, potrebbe dire qualcuno. C’è sempre un modo per gestire il pagamento per ottenere (o fruire) di qualcosa che ha un valore economico, quindi che senso ha preoccuparsi del fatto che invece di royalty si utilizza, per esempio, una banale vendita di file musicali a prescindere da qualsiasi discorso autoriale?
In effetti, il ragionamento è corretto: ma vivere in un epoca nella quale ciò che consideriamo “opera d’arte” prescinde dall’intervento di un artista è la migliore dimostrazione del fatto che il diritto d’autore, per come lo conosciamo, ha perso molto del suo senso.
Come la vita che, fino ad oggi, ha rappresentato in tante sue forme, peraltro.
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