Esplorare Planets non è solo un’esperienza estetica ma è anche lo spunto per riflettere su come le tecnologie abbiamo aumentato il progressivo senso di estraniazione che caratterizza il nostro tempo di Andrea Monti – Inzialmente pubblicato su Strategikon – Italian Tech La Repubblica
Tokyo – TeamLabs Planets è una installazione artistica costruita dalle parti di Odaiba, l’isola artificiale della baia di Tokyo che ospita anche il Miraikan, “casa” per molto tempo di Asimo il robot antropomorfo sviluppato da Honda, per decenni archetipo del rapporto fra uomo e macchina.
In parte (poco) museo, in parte (tantissimo) esperienza interattiva, Planets sgancia il visitatore dalla percezione normale della realtà e lo proietta in uno spazio dove egli, ingannato da luci, specchi e varie stimolazioni sensoriali, entra in una condizione stupendamente disorientante.
Esplorare Planets, tuttavia, non è solo un’esperienza estetica ma è anche lo spunto per riflettere su come le tecnologie abbiamo aumentato il progressivo senso di estraniazione che caratterizza il nostro tempo, diventando l’interfaccia fra il mondo esterno e la percezione soggettiva che ne abbiamo.
Probabilmente evidenziare questa prospettiva non era nelle intenzioni dei suoi creatori ma, una volta concluso il percorso che dura circa un’ora, rimane forte la percezione di essere stati esposti all’ennesima iterazione dalla sistematica tendenza a sostituire l’esperienza con l’esperienzialità. In altri termini, nella fruizione di Planets la conoscenza razionale cede il passo alla percezione istintiva dove il significato di ciò che accade è definito da un flusso di stimoli che “arrivano” direttamente, senza alcuna mediazione conscia e che dunque ciascuno interpreta ed organizza secondo i propri schemi cognitivi. Questo effetto è particolarmente evidente nel padiglione Falling Universe of Flowers dove la proiezione di immagini in movimento sulla volta e il loro riflesso sul pavimento a specchi generano un senso di vertigine che spinge naturalmente le persone a sdraiarsi per immergersi pienamente nello spettacolo e vivere, soli in mezzo a una folla, l’esperienza.
Come già detto, in Planets l’accentuazione della dimensione individuale, soggettiva e dunque “solipsistica”, ha chiaramente un senso estetico ma proprio il modo in cui è pensata l’installazione è uno sguardo sul futuro e su come i device a realtà variamente aumentata (che meglio sarebbe chiamare “realtà avariata”) potrebbero cambiare in peggio l’interazione con la realtà.
“Sparare” direttamente nel cervello non solo repliche “virtuali” dell’ambiente circostante ma anche realtà virtuali nel senso proprio dell’aggettivo —cioè realtà che non esistono— significa trasferire alle tecnologie dell’informazione (e dunque a chi le controlla) il potere di determinare il contenuto della realtà che ci è dato di sperimentare.
Se ne era accorto oltre vent’anni fa Neal Stephenson nella parte del suo piccolo saggio “In the beginning was the command line” dedicata alla “interface culture” e dove molte delle considerazioni sulla percezione tecnologicamente mediata di Disney World sono largamente applicabili ad esperienze come Planets e alle esasperazioni rese possibili dagli strumenti a realtà avariata.
Il risultato è un fenomeno allucinatorio globale che nemmeno Timothy Leary avrebbe mai potuto immaginare, solo che oggi —o in un prossimo domani— non ci sarà bisogno di mettersi in cerca di acidi o funghi allucinogeni perché tutto sarà disponibile on demand sul nostro app store preferito. E se qualcuno pensa che questa conclusione sia eccessivamente distopica o fantascientifica, basta andare a leggere cosa scrive lo European Data Protection Supervisor sull’accettabilità dei Digital Therapeutics.
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