Blockchain, criptovalute, NFT e smart contract sono la moda del momento. Promettono (l’ennesima) rivoluzione. Attirano investimenti pubblici e privati. Consentono, a chi le ha abbracciate, di realizzare fortune e di perdere tutto. Sono anche, tuttavia, l’ennesimo passo verso la schiavitù elettronica mascherata da sogno di libertà. Grazie a queste tecnologie —ma più in generale al modo in cui funziona il mercato delle tecnologie dell’informazione— trasferiamo a operatori privati il controllo sul valore economico e intellettuale che creiamo con il nostro lavoro e il nostro impegno di pensiero. In cambio di cosa? di Andrea Monti – Originariamente pubblicato su Strategikon un blog di Italian Tech
I processi produttivi ed economici basati sulle tecnologie dell’informazione sono basati sull’inversione del rapporto fra bisogno e sua soddisfazione. Prima viene la “soluzione” e poi il “problema” che questa soluzione deve risolvere: la coda, in sintesi, agita il cane.
È vero che, tanto per limitarci al secolo scorso, Ford diceva che se avesse dovuto dare ascolto alla gente, avrebbe dovuto allevare cavalli più veloci invece di produrre automobili. Come è vero che Steve Jobs sosteneva che il più delle volte le persone non sanno cosa vogliono fino a quando non viene loro mostrato. Sarebbe tuttavia scorretto dedurre da questi approcci una regola generale secondo la quale l’importante è creare qualcosa di vendibile, poi si farà in modo che serva a qualcosa. In altri termini, il fatto che una “tecnologia” sia disponibile non implica che la si deva per forza utilizzare. Questo è ancora più vero se si considera che blockchain, critptovalute ma anche ebook, musica e servizi vari funzionano fino a quando gli operatori di telecomunicazioni, ma soprattutto i Governi, lo consentono. È dato per scontato, infatti, che l’infrastruttura fisica su cui si appoggiano blockchain e i suoi derivati sia sempre disponibile, funzionante e, soprattutto, libera da blocchi o condizionamenti politici.
Non è così, perché come dimostra la storia recente la prima reazione dei Paesi nei quali esplodono disordini è il blocco delle reti di telecomunicazioni. Questo non accade soltanto in Paesi considerati autoritari ma può verificarsi anche in USA e anche in Italia, dove dal 2019 la Presidenza del Consiglio ha ricevuto il potere di attivare il kill switch che spegne l’internet nazionale in caso di emergenza. E se non c’è l’internet, non ci sono Blockchain, Bitcoin, NFT e via discorrendo. Analogamente, vista la dipendenza di queste tecnologie dagli operatori di telecomunicazioni e dai Data-Centre Provider è abbastanza intuitivo capire che la libertà promessa dai suoi sostenitori è in realtà una forma diversa di schiavitù elettronica.
Blockchain
Chiediamoci dunque, innanzi tutto, se abbiamo bisogno di blockchain. Questa tecnologia, dice la vulgata, serve per garantire trasparenza e pubblicità alle transazioni fra due o più soggetti affidando al controllo distribuito la protezione della genuinità dello scambio. Ma che valore ha questa “garanzia”? Nessuno, a meno che una legge non attribuisca ai ledger blockchain uno status giuridico particolare. Attribuire valore giuridico pieno a una blockchain, tuttavia, non è cosa che richiede qualche paragrafo in un progetto di legge. Sarebbe necessario mettere in piedi un sistema complesso per soddisfare le necessità dell’ordinamento per fare qualcosa che viene già fatto con altri sistemi. Costerebbe molto, anche al punto di vista energetico e consegnerebbe la rete a chi ha la potenza di calcolo per generare le proof-of-work che “sigillano” i ledger. Dal canto loro, invece, gli attuali sistemi di tracciamento studiati nella logistica, nella produzione industriale e nel settore agroalimentare già consentono di ricostruire minuziosamente il percorso di materie prime e prodotti senza necessità di reinventare la ruota.
Problemi analoghi riguardano il tentativo di usare una blockchain per identificare le persone. L’identità giuridica appartiene allo Stato, non all’individuo. È lo Stato che, fin dall’emissione del certificato di assistenza al parto e poi l’iscrizione all’anagrafe certifica chi sono e chi —nel caso di collaboratori di giustizia o altre persone in condizioni particolari— posso diventare. Non ci sono alternative giuridiche e, di conseguenza, non possono essercene di natura tecnologica.
Infine, ma forse prima di tutto: perché un sistema decentralizzato basato su blockchain dovrebbe essere concettualmente preferibile a un sistema gerarchico di natura Statale? Di cosa abbiamo paura, vivendo in un Paese democratico e saldamente radicato nella cultura e nei valori occidentali?
Criptovalute
Innanzi tutto, non sono una novità e non dipendono necessariamente da una blockchain. In questo senso, dunque, non sono nulla di nuovo perché la prima “valuta” ad usare strumenti crittografici fu Digicash nel 1993. In secondo luogo, non sono “monete” perché sono prive di corso legale e dunque non sono un mezzo di pagamento. Se invece degli Euro un negoziante è disponibile ad accettare Bitcoin o le famosissime Pizze di fango del Camerun, il problema è tutto suo. Infine, le criptovalute non hanno alcun valore oggettivo, ma solo convenzionale perché “valgono” solo per chi riconosce loro un valore di scambio. Fino a quando Bitcoin e i suoi derivati si scambiavano su circuiti separati da quelli sistema finanziario avevano quantomeno una funzione ideologica: sottrarre allo Stato il monopolio sulla creazione del valore e dunque realizzare almeno in parte l’utopia anarchica. Da quando, però, gli investimenti privati hanno trasformato le criptovalute in oggetti sui quali speculare, queste hanno perso la loro portata rivoluzionaria. Volendo usare un linguaggio alquanto retrò si potrebbe dire che ora le criptovalute fanno parte a pieno titolo del sistema capitalistico.
NFT
Destino analogo (ma senza l’iniziale afflato rivoluzionario) affligge i Non Fungible Token (NFT), una variazione della tecnologia che fa funzionare le criptovalute e che serve a “unicizzare” un file e a tracciarne i passaggi di proprietà. NFT, si dice, serve per dare valore alle opere d’arte digitali(zzate) e tutelare i diritti degli autori e di chi compra le loro opere. Non è un caso che abbia attirato l’attenzione di multinazionali dell’intrattenimento come Disney o Netflix.
Innanzi tutto, per capire se abbiamo bisogno dei NFT dobbiamo decidere cosa intendiamo per “opera d’arte” e, forse, rileggere il lavoro di Benjamin sull’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica pubblicato nel 1935. Ciò premesso — come direbbe un avvocato— valga il seguito. Se ciò che conta di un’opera d’arte è l’esperienza estetica che stimola, allora non c’è differenza fra originale e copia specie in relazione a opere create nativamente in digitale. Dunque, per “apprezzare” un cryptopunk venduto a 12 milioni di dollari non ho bisogno di scaricare l’originale (posto che sia pubblico), né di comprarne una “copia autorizzata”. Mi basta fare uno screen-shot di una delle tante immagini disponibili online per soddisfare la mia “esigenza estetica” specie se devo viverla sullo schermo di uno smartphone o di un tablet. Viceversa, guardare uno dei Caravaggio esposti nella Sala 90 degli Uffizi è un’esperienza che nessuna fotografia o riproduzione “autenticata” da un NFT potrebbe consentire. Anche a questo proposito, peraltro, si dovrebbe meditare sul ruolo di una copia fisica del quadro realizzata dai professionisti (non necessariamente falsari) del settore. Pure in questo caso, dal punto di vista di chi fruisce dell’opera, la differenza fra originale e copia perde progressivamente senso. Se, poi, si fa un ulteriore passo in avanti e si guarda il Next Rembrandt si scopre che l’esperienza estetica non è nemmeno legata ad un’opera specifica, quanto allo stile dell’artista. The Next Rembrandt non è stato dipinto da Rembrandt ma da un software che ne imita il linguaggio espressivo. Dal punto di vista dello spettatore, tuttavia, questo non rileva perché ciò che conta è l’effetto finale. Se i colori sono usati come farebbe Rembrandt, se il tratto è come quello di Rembrandt, se il soggetto è uno di quelli che Rembrandt avrebbe dipinto, allora il quadro è come se fosse di Rembrandt (chi si occupa di AI avrà riconosciuto, in questo ragionamento, l’argomento funzionalista sulla base del quale si cerca di dimostrare che un software possa se non essere, almeno sembrare intelligente). Quindi, tornando al punto, ciò che conta è se l’opera sia stata realizzata con gli stilemi di uno specifico artista e non se sia stata realizzata dall’artista “originale”.
Se, dunque e quantomeno per l’arte digitale, non c’è differenza fra originale e copia, i NFT servono solo ad alimentare il mercato del collezionismo. Cioè la speculazione. Stando così le cose, allora è opportuno chiamarle con il loro nome: i Non Fungible Token sono come i sistemi anti-copia: servono per quei Digital Right Management tanto avversati dalla comunità del Free Software. Intendiamoci, non c’è assolutamente nulla di male nello studiare come proteggere la proprietà intellettuale di beni digitalizzati, ma è importante essere chiari sul significato delle parole.
Smartcontracts
L’idea che sta alla base degli smart-contracts è affidare a un software (ma la parola è riduttiva) la gestione della negoziazione e dell’adempimento di un contratto. Un (oggi) banalissimo acquisto su una piattaforma di ecommerce si basa concettualmente su uno smart-contract: le obbligazioni delle parti sono “codificate” nella procedura di selezione del prodotto, del pagamento e della spedizione del bene secondo quanto è stato “incorporato” nell piattaforma. Nulla di diverso, concettualmente parlando, dall’acquisto di un pacchetto di sigarette da un distributore automatico.
Gli smart-contract propriamente detti si appoggiano all’immancabile blockchain e, almeno sulla carta, dovrebbero gestire dinamicamente il rapporto contrattuale. Ma basta guardare agli esempi utilizzati più spesso per spiegare a cosa possono servire per capire quali sono i problemi strutturali di questa tecnologia. Tre criticità emergono su tutte: la necessità di interfacciamento con un enorme numero di piattaforme, l’impatto degli errori di programmazione sui diritti delle persone, il trasferimento del potere di giudicare dalle Corti ai tecnici.
Pensare che uno smart-contract possa essere usato per gestire il pagamento, diciamo, delle rate di un leasing auto implica che siano collegati, almeno, i sistemi della finanziaria, della banca del cliente, del produttore della vettura e della vettura stessa. Già solo a questo livello di complessità è evidente l’ordine di problemi che si possono verificare.
A questo possiamo aggiungere, e veniamo al secondo problema, il fatto che non esistono programmi privi di errori. Al crescere della complessità del software cresce il numero di bug e dunque in un’infrastruttura come quella descritta che dovrebbe interagire con sistemi diversissimi è inevitabile aspettarsi blocchi e malfunzionamenti che potrebbero affliggere milioni di persone contemporaneamente. Per non parlare dei problemi di sicurezza delle singole piattaforme.
Infine: chi dovrebbe giudicare su questi malfunzionamenti (e prima ancora sul rispetto degli obblighi assunti dalle parti)? Non certo un giudice. A meno, infatti, che il magistrato non abbia una laurea (e l’esperienza) in computer science è alquanto improbabile che possa rendersi conto di cosa si sta occupando. La conseguenza è che la decisione verrà delegata di fatto, come spesso già accade nei processi molto complessi, a un consulente tecnico.
Conclusioni
Se volessimo sintetizzare in una frase l’enorme dimensione dei problemi provocati dall’approccio distorto all’innovazione tecnologica non ci sarebbe scelta migliore di un libro tanto sconosciuto quanto profetico: The Inmates Are Running The Asylum. I matti stanno governando il manicomio.
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