Spazio, dove finisce il cielo quando la politica e l’industria se lo contendono?

L’evoluzione delle tecnologie satellitari impone di rivedere una concezione giuridica di spazio che non è più adeguata alla possibilità di sfruttare economicamente le orbite atmosferiche di Andrea Monti – Inzialmente pubblicato su Wired.it

Il dibattito pubblico che si è sviluppato intorno alla possibilità che l’Italia si doti di una rete satellitare fornita e sotto il controllo di un soggetto privato extracomunitario si concentra in modo alquanto miope sul tema della “cessione di sovranità” su infrastrutture critiche. Tuttavia, dimentica che da anni le reti di telecomunicazioni non sono più nella disponibilità esclusiva dell’Italia e che da ancora più tempo istituzioni pubbliche e imprese sono già in condizioni analoghe per quanto riguarda l’uso di software e piattaforme. Infine, come anche in altri ambiti tecnologici, il tempo e gli investimenti per riprendere una qualche autonomia nel settore spazio sono incompatibili con le necessità dell’oggi. In questo senso, dunque, anche se il problema dell’outsourcing satellitare fosse effettivo, non ci sarebbe nulla di nuovo.

Di chi sono le orbite?

La risposta è (apparentemente) semplice: di nessuno. Attualmente, infatti, esiste una distinzione tra spazio aereo, soggetto alle giurisdizioni nazionali, e spazio esterno, considerato un patrimonio comune dell’umanità secondo il Trattato sullo spazio esterno (Outer Space Treaty – OST) del 1967. Peccato, però, che non sia stato deciso una volta e per sempre dove finisce il cielo e dove comincia lo spazio (e, di conseguenza, a chi “appartengano” le relative orbite).

Ad oggi, il confine tra atmosfera terrestre e spazio esterno è identificato convenzionalmente con la “linea di Kármán”, a circa 100 chilometri sopra il livello del mare. Dunque, siccome le orbite utilizzate dalle costellazioni satellitari sono al di sopra di questa linea, esse (o meglio, le specifiche porzioni che “coprono” il territorio) non sono soggette alla sovranità degli Stati che vengono “sorvolati”.

Tuttavia, questa distinzione si sta rivelando insufficiente perché alcune orbite terrestri, come quella bassa (Low Earth Orbit – LEO) sono diventate aree di intensa attività economica e strategica anche per soggetti privati, rendendo sempre meno sostenibile la distinzione giuridica che deriva dall’intersezione fra l’OST e l’attribuzione convenzionale del valore di “confine” alla Linea di Kármán.

Perché (e come) rivedere il concetto giuridico di Spazio?

Dal punto di vista politico e giuridico, la difficoltà di tracciare un confine con lo spazio esterno dipende dal voler utilizzare un parametro fisico invece che normativo. In altri termini, il punto non è “tirare una linea” nel cielo, ma decidere che se un’area del cielo è suscettibile di sfruttamento economico allora diventa un bene giuridico (pubblico) e il suo utilizzo deve essere regolato.

Spostare l’attenzione dalla definizione fisica a una classificazione funzionale dello spazio consentirebbe agli Stati di stendere la sovranità anche sulle zone per lo svolgimento di attività orbitali e suborbitali, mentre lo spazio esterno rimarrebbe soggetto ai principi dell’OST, come la libertà di esplorazione e l’uso pacifico.

Questa distinzione giuridica non è nuova. I giuristi hanno dibattuto a lungo sull’idea di prolungare verso l’alto la sovranità nazionale, sulla base del vecchio principio del diritto romano in base al quale il diritto si estende usque ad sidera – fino al cielo, e dunque senza limitazioni.

Per quanto intuitivamente accettabile (non c’è una differenza qualitativa fra un aero che vola a diecimila metri e un satellite che orbita a 300 km di altezza sul territorio di uno Stato) questa proposta è stata considerata impraticabile. Oggi, però, l’evoluzione tecnologica, i cambiamenti del mercato e degli equilibri geopolitici impongono di riconsiderare questa posizione. D’altra parte, si tratta di utilizzare un criterio funzionale e non scientifico, per cui nulla vieta di creare a tavolino un “aerospazio nazionale” da affiancare al già esistente “spazio aereo nazionale”, e nel quale far rientrare le orbite di interesse.

Cosa si deve fare?

Creare una “giurisdizione orbitale” produrrebbe effetti concreti e immediati. In primo luogo, consentirebbe una gestione razionale di una risorsa, le orbite terrestri, enorme ma in ogni caso finita e dunque, come le frequenze radio o i numeri IPv4, scarsa.

Tramite la creazione di un sistema di concessioni e autorizzazioni (ancora una volta, in analogia con quanto accade con le radiofrequenze) si faciliterebbe la stipula di accordi internazionali per regolamentare licenze, attribuire responsabilità e coordinare costellazioni satellitari, riducendo il rischio di conflitti e militarizzazione dell’aerospazio.

Inoltre, strumenti giuridici armonizzati potrebbero affrontare meglio le sfide delle tecnologie satellitari a doppio uso, garantendo un equilibrio tra interesse nazionale, security shared responsibility e sviluppo economico. Rimane soltanto il dubbio sulla possibilità che di queste cose possa occuparsene direttamente l’Unione Europea, trattandosi di ambiti che potrebbero rientrare fra quelli riservati agli Stati membri.

Scongiurare l’effetto Nightfall

Al di là degli aspetti strettamente geopolitici e industriali, tuttavia, c’è una ragione più profonda che sostiene l’importanza di riprendere il controllo delle orbite, ed è quella di evitare quello che potremmo chiamare “effetto Nightfall”.

Nel racconto che Asimov scrisse nel 1941, la civiltà di un pianeta si autodistruggeva periodicamente perché essendo abituata a vivere in uno stato di illuminazione continua per via dei soli attorno ai quali orbitava il pianeta, impazziva quando – altrettanto periodicamente – una luna provocava un’eclissi quando c’era soltanto un sole visibile. L’incapacità di gestire il buio anche solo per pochi minuti precipitava gli abitanti in chaos tale da provocare la quasi estinzione degli abitanti e dunque la civiltà si “resettava” ogni volta.

Non siamo certamente (ancora) ad un livello del genere, ma l’affollamento dei satelliti sta già causando seri problemi all’osservazione astronomica terrestre e all’astrofotografia. Insieme all’inquinamento luminoso, la crescita indiscriminata delle costellazioni satellitari rischia di accecare proprio quell’occhio che, guardando l’universo, le ha rese possibili e che, percependo l’infinito, ha deciso di esplorarlo.

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