La protesta degli studenti dell’università di Torino ripropone il tema dell’uso di software per controllare la regolarità degli esami a distanza. Fino a che punto ci si può spingere nel controllo degli studenti?
di Andrea Monti – Originariamente pubblicato su PC Professionale n. 361
L’annuncio dell’università di Torino sul prossimo utilizzo di software di sorveglianza per gestire gli esami a distanza ha suscitato polemiche fra gli studenti alcuni dei quali, lo scorso 23 febbraio 2021, sono addirittura arrivati ad incantenarsi di fronte all’entrata del rettorato. La protesta torinese è, in ordine di tempo, l’ultimo atto di opposizione a quella che oramai è diventata una realtà in diversi atenei italiani e che era iniziata già lo scorso giugno 2020 da parte degli studenti dell’università Bocconi. In sintesi, l’oggetto delle contestazioni è l’invasività di queste piattaforme software che non solo registrano il video dell’esame, ma controllano anche il comportamento dello studente tramite la webcam per verificare che non guardi altrove, magari verso appunti o altri “aiutini”, analizzano addirittura il contenuto del computer e registrano, conservandole, le immagini dei documenti di identità degli studenti. Se a questo aggiungiamo che questo materiale viene conservato per diversi anni anche al di fuori della UE e, pur anonimizzato, può essere messo a disposizione di ricercatori di terze parti, le preoccupazioni degli studenti sono più che legittime.
La delicatezza di questo tema avrebbe richiesto un intervento del Garante dei dati personali che però si è tradotto in un blando comunicato privo di effettiva efficacia. L’Autorità, infatti, si è limitata a ricordare i principi normativi che devono regolare il trattamento dei dati personali ma sul caso specifico dell’uso di piattaforme extraUE per la didattica a distanza e degli esami, sostanzialmente, non ha detto nulla.
In linea di principio, l’adozione di strumenti e procedure che garantiscono la regolarità di un esame non è in discussione. Come sa chiunque abbia mai partecipato a un concorso pubblico, sono previste verifiche dell’identità personale del candidato, dell’assenza di strumenti che consentono di comunicare con l’esterno e di “aiuti” non autorizzati nella forma di appunti, libri o altri “supporti alla memoria”. Anche nel caso degli esami a distanza, dunque, è necessario trovare un modo per garantire che le prove si svolgano secondo la legge (trasparenza, identificazione dello studente, verifica che non stesse “barando” e via discorrendo). Il tema è paricolarmente rilevante se consideriamo, anche solo empiricamente, la quantità di informazioni che circolano su come ingannare i docenti.
Aspetti etici a parte, nel sistema dell’istruzione pubblica italiana un esame è un procedimento amministrativo che ha degli effetti giuridici importanti. Sarà forse banale ricordarlo, ma il superamento di un esame “certifica” il possesso di determinate competenze e, complessivamente, abilita le persone ad esercitare lavori e professioni dalle quali possono dipendere la vita e i diritti della collettività.
Queste considerazioni giustificano senz’altro l’utilizzo di strumenti tecnologici per la sorveglianza del comportamento degli studenti. Il diavolo, tuttavia, è sempre nei dettagli: il fatto di poter usare software di proctoring non vuol dire che si possono usare a proprio piacimento.
Gli aspetti più critici evidenziati da questi strumenti sono quelli del riutilizzo da parte dei loro produttori dei dati biometrici degli studenti, dell’esportazione di questi dati al di fuori della UE e dell’assenza di un effettivo controllo da parte degli atenei.
Che i dati personali siano una componente del prezzo di qualsiasi servizio basato su algoritmi e potenza di calcolo è oramai un fatto compiuto. Possiamo lamentarci quanto vogliamo ma è così. A parte le derive paranoiche sulla sorveglianza globale, l’accumulazione di dati serve per “addestrare” software e accrescere la loro capacità di operare autonomamente (il che, peraltro, non li trasforma in “intelligenti”). Non è un caso che si moltiplichino le notizie su questa o quella azienda che ha provato ad utilizzare immagini o altri dati disponibili online per i propri progetti di “Intelligenza Artificiale”. Così come non è un caso che si stiano moltiplicando progetti di prevenzione criminale basati sulla possibilità di mettere ordine in quantità di dati non correlati. La “profilazione per il marketing diretto” , spauracchio di tanti, è oramai cosa del passato perché le promesse (non ancora mantenute) di chi è in grado di analizzare big-data si posizionano ad un livello decisamente più invasivo in termini di controllo sociale. A fronte di questa (vantata) capacità, le istituzioni pubbliche non possono che stare sulla difensiva e subire le scelte imposte dal proprietario della piattaforma, il che consente, peraltro, di nascondere la propria inerzia dietro l’impotenza nei confronti dei grandi operatori e l’inefficienza della tutela giuridica sulla protezione dei dati personali.
Ci sarebbe da chiedersi, per esempio, perché i dati biometrici degli studenti e i video degli esami devano per forza essere messi a disposizione del proprietario del software e non, invece, solo dell’università e – in caso di contestazioni – dell’autorità giudiziaria. Oppure ci si potrebbe chiedere perché questi dati sono automaticamente resi disponibili al fornitore, invece di essere sottoposti al controllo degli atenei che, volta per volta, potrebbero valutare la richiesta e decidere in modo ragionato se consentire o meno. E ci si potrebbe, infine, chiedere a che titolo un ente pubblico decide in autonomia dei dati personali degli studenti. Certo, l’uso dei software di proctoring richiede l’immancabile “prestazione del consenso”, ma uno studente è veramente libero di scegliere se accettare che i propri dati siano trattati anche per finalità diverse da quelle dello svolgimento dell’esame? Anche se fossero previsti gli onnipresenti “bottoncini” che differenziano le autorizzazioni al trattamento, quale concreta possibilità avrebbe uno studente di verificare se un’azienda di oltreoceano sta rispettando o meno gli accordi?
“Non c’era tempo” si potrebbe rispondere, “siamo in emergenza e dobbiamo decidere in fretta”. Rimane tuttavia il dubbio che l’emergenza sia stata usata come giustificazione per usare software di proctoring e piattaforme di didattica a distanza senza un’adeguata valutazione delle conseguenze in termini di rispetto dei diritti. Quando, e se, qualcuno controllerà forse avremo una risposta, ma intanto i dati degli studenti saranno già permanentemente diventati cittadini americani.
Possibly Related Posts:
- Chi ci protegge dal dossieraggio tecnologico?
- Webscraping e Dataset AI: se il fine è di interesse pubblico non c’è violazione di copyright
- Perché Apple ha ritirato la causa contro la società israeliana dietro lo spyware Pegasus?
- Le sanzioni UE ad Apple e Google aprono un altro fronte nella guerra contro Big Tech (e incrinano quello interno)
- La rottura tra Stati e big tech non è mai stata così forte