di Andrea Monti – PC Professionale n. 184
Il tribunale di Milano respinge la richiesta di Sky che chiedeva il blocco degli accessi ai siti pirata da cui era possibile scaricare le partite di calcio
Il 3 giugno 2006 si è conclusa la controversia giudiziaria che ha contrapposto Sky Italia a Telecom Italia, con la prima che (in previsione dei Mondiali di calcio) aveva chiesto al tribunale di Milano di imporre “in via di urgenza” alla seconda il blocco degli accessi ai siti che linkavano ai famigerati server cinesi dai quali era possibile scaricare in streaming anche le partite del campionato italiano. Con una motivazione quasi brutale, il giudice ha rigettato la richiesta dell’emittente televisiva, sostenendo che “la domanda cautelare… – in quanto proposta nei riguardi di Telecom Italia – appare… destituita di fondamento”.
Il giudice ha basato la decisione su un principio espresso in sede comunitaria fin dal 2000 (con la direttiva 31) e recepito anche in Italia (con il DLGV 70/2003) secondo cui l’internet provider che si limita a fornire servizi di “mero trasporto” non è responsabile di ciò che accade in rete, a meno di non rendersi complice degli atti illeciti. Per poter accusare un ISP di avere diffuso o contribuito a diffondere materiali illegali, dunque, è necessario dimostrarne il coinvolgimento diretto e concreto (cosa che, scrive ancora il giudice, Sky non ha fatto). In questo senso la recente decisione conferma un orientamento già espresso dal tribunale di Milano che aveva già stabilito con la sentenza 1993/04 che l’Isp è corresponsabile delle azioni dei webmaster solo se è a conoscenza della presenza di contenuti illeciti sui server messi a disposizione dei clienti.
Se questa parte della decisione è sicuramente condivisibile, non si può dire lo stesso per il modo in cui stabilisce la responsabilità del gestore di un sito, per i link che questi pubblica e per il software che distribuisce. Gli argomenti usati dal giudice sono infatti posti in termini così vaghi, da risultare pericolosi perché si prestano a interpretazioni troppo ampie e facilmente traducibili in forme ingiuste di censura e di limitazione della libertà di espressione. Non ogni link a contenuti critici è di per sé penalmente illegale, visto che nella valutazione complessiva del fatto si deve anche considerare il perché dell’azione. E dunque, per esempio, non può essere illecita una pagina di link a siti P2P (peer-to-peer) predisposta nell’ambito di un’indagine giornalistica. Anche se questa consentisse l’accesso a risorse potenzialmente illecite, sarebbe diretta a informare e non all’istigazione a delinquere.
Allo stesso modo, inibire genericamente la messa a disposizione di software strumentali alla fruizione non autorizzata delle opere protette, significa consentire di estendere potenzialmente il divieto fino alla distribuzione di normali media player o altri software perfettamente legali e che (analogamente a un’automobile) l’utente – e solo lui – può decidere di usare a fini illeciti. Con il rischio di trasformare la tutela del diritto d’autore in uno strumento di competizione sul mercato per liberarsi di concorrenti scomodi specie se distribuiti con licenze open source. In realtà la giurisprudenza (anche se statunitense) aveva già analizzato più attentamente la questione effettuando dei precisi distinguo.
Così, già dai tempi di Napster il giudice rilevò che la colpa del “padre del P2P” era di non avere implementato adeguate funzionalità per consentire il rispetto dei diritti d’autore; mentre nel caso Grokster il giudice stabilì che se qualcuno promuove un prodotto – e ne trae un utile economico – invitando a utilizzarlo per violare la legge, questo qualcuno è corresponsabile delle violazioni che vengono commesse tramite il prodotto stesso. Ma, a quanto pare, per avere anche in Italia simili approfondimenti si dovrà ancora attendere del tempo. In tutta questa confusione, però, chi rimane nell’incertezza più assoluta sono gli utenti che non sanno ancora se sia lecito oppure no accedere ai contenuti di questo tipo liberamente reperibili in rete.
Una indicazione arriva – sul caso specifico delle partite – dal GIP del tribunale di Milano che, nel provvedimento dell’8 febbraio 2006 che dissequestrava due siti coinvolti in attività analoghe a quelle di cui parla questo articolo, riteneva l’ingresso dei filmati nel territorio italiano un illecito civile (fonte cioè di risarcimento dei danni) ma non un reato.
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