Questo articolo di Wired.it perpetua il presupposto (sbagliato) sul quale si basa la profezia millenaristica autoavverante dei nostri tempi: un “algoritmo” capace di qualsiasi cosa, governerà ogni fase dell’azione umana compreso l’orientamento delle nostre scelte di consumo.
Per sostenere questa tesi – priva di riscontri oggettivi e documentati,ma alimentata dal “lo dicono tutti quindi è vero” – il giornalista di Wired intervista un paio di operatori del settore e da lì parte per generalizzare una conclusione che, allo stato, è vera per chi ci crede.
L’illusione dei “Big Data” sta nel fatto di credere che avere “più dati” significa desumere più informazioni. Questo non è vero, perché è un post hoc, ergo propter hoc pensare che se ho un insieme abbastanza grande di dati il valore della frequenza di una certa variabile abbia un valore assoluto.
In altri termini, a meno di non incorporarli in una salda infrastruttura statistica, i Big Data possono – al più – rilevare una tendenza istantanea: durante la settimana della moda di Milano, sulla base di “n” tweet sull’argomento, il colore di tendenza per la prossima stagione sarà “a Singapore tramonto color zafferano”. Ma questo non vuol dire che sarà veramente così nè che si possano inferire conclusioni di tipo statistisco.
Che dire, dunque, di questa “nuova frontiera” dell’advertising fatta di versioni moderne del Tubolario?
Intanto, che l’arte del copywriting è estremamente sofisticata e complessa, fatta di cultura individuale, di sensibilità, di intuizione, e di sense of humour. Questo, non per tirare fuori il trito argomento sulla “incapacità del computer di ridere” o di “commuoversi” ma per evidenziare che l’invenzione di un messaggio efficace non si basa su un rapporto meccanico quale quello ipotizzato nell’articolo di Wired.it: vedo a quali frasi risponde meglio il pubblico, tengo quelle e scarto le altre.
Questa è l’ennesima iterazione di un modo di intendere l’essere umano come una “macchina di Skinner“, come una scatola nera che possiamo comprendere solo analizzandone i comportamenti esteriori e che possiamo “riprogrammare” internamente modificandone gli epifenomeni.
Certamente i lavori di Skinner – e prima di lui quelli di Pavlov e di tutti gli altri studiosi che hanno contribuito alla “psicologizzazione” della cibernetica – hanno dimostrato una certa efficacia nel condizionare il comportamento individuale. Ed è evidente che la creazione di profili individualizzati sia funzionale alla modifica del comportamento di una singola persona. Dunque, come scrivo in Protecting Personal Information,:
It was therefore rather obvious that the growth of the networked part of people’s daily lives would present an enormous opportunity to refine individual behaviour studies. But how exactly is this online information exploited by profiling?
“There are two aspects of consumer segmentation grounded in psychological variables that will be considered in the context of the digital media … The first … comprises a form of ‘behavioural segmentation’ based on the online behavioural activities of consumers.
The second … entails the use of psychographic measures, including personality traits originally developed outside consumer contexts, to explain online behaviour. 1
This may suggest that myriad panopticons’ adepts are controlling our activities online. But the reality is rather different. Common profiling methods sold to the majority of businesses either simply do not work or are of limited efficacy and, as will be suggested below, privacy is threatened by the new methods of manufacturing political consent rather than by a horde of ‘serial profilers’ in the digital wild.”
In secondo luogo, l’inversione del verso del vettore che collega il messaggio pubblicitario con il suo destinatario (dal consumatore al copywriter invece che dal copywriter al consumatore) mina alla base il concetto di trasparenza e correttezza dell’informazione pubblicitaria.
Quando un’agenzia “crea” un messaggio, lo fa nel rispetto delle regole della pubblicità stabilite e gestite in Italia, dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria ed è quindi obbligata a far si che – come insegna fin dal 1912 il motto di McCann-Erickson – la “verità” sia “detta bene”.
“Truth well told” non è soltanto una “visione” del modo di fare pubblicità o la sintesi della strategia di un grande gruppo multinazionale della comunicazione. E’ un componente essenziale del rapporto di fiducia che deve caratterizzare il legame fra brand, messaggio e consumatore. Ed è chiaro, dunque, che se invece di creare questo robusto legame trivalente si privilegia la scorciatoia del “trucchetto” o del “gioco di prestigio” basati sul capire cosa piaccia ai più per poi dire loro quello che vogliono sentirsi dire, si rischia di subire l’applicazione della legge di Marcello Marchesi senza nemmeno bisogno di spendere tempo e soldi in “Big Data” e “Artificial Intelligence”:
Mangiate merda, milioni di mosche non possono essersi sbagliate.
- Barrie Gunter The Psychology of Consumer Profiling in a Digital Age (Routledge Studies in Marketing) (London: Taylor and Francis, 2010) 7 ↩
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