Questo è un estratto dall’articolo ” Scienza, public policy e tecnocontrollo nell’era COVID-19″ accettato per la pubblicazione dalla Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione per il volume “COVID-19: to rule the emergency”
1. Introduzione
L’emergenza COVID-19 ha evidenziato in modo chiaro – ma non per questo preso nella dovuta considerazione – il ruolo centrale della scienza e della tecnologia nel condizionare le scelte politiche e di conseguenza le norme emanate in loro applicazione.
Non si tratta solo e soltanto delle pur fondamentali questioni legate alla ricerca medico- scientifica, ma anche del modo in cui, da un lato, le tecnologie dell’informazione sono diventate la spina dorsale e l’apparato neuromuscolare del Paese e, dall’altro, hanno posto seri interrogativi sui limiti del loro utilizzo non solo per il controllo diffuso del contagio, ma anche del modo in cui, da un lato, le tecnologie dell’informazione sono diventate la spina dorsale e l’apparato neuromuscolare del Paese e, dall’altro, hanno posto seri interrogativi sui limiti del loro utilizzo non solo per il controllo diffuso del contagio, ma per l’estensione delle forme di sorveglianza e condizionamento della vita individuale nelle mani della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e il funzionamento della pubblica amministrazione.
Il dibattito pubblico sugli aspetti tecnologici si è concentrato sulla pericolosita? delle cosiddette “app” di contact-tracing in nome di un vago e indefinito concetto di “privacy” che «è diventato troppo generico e impreciso per costituire uno strumento analitico di qualche utilità» (Wacks, 2016, p. 3) o su generici “allarmi” sul rischio della creazione di uno Stato di polizia, ma in realtà sono rimasti sullo sfondo dei temi centrali come, innanzi tutto, il ruolo della scienza e del data-analytics nel supporto alle attività di public policy e il controllo sulla sovranità nazionale su dati e identità digitale che rivestono un ruolo fondamentale nella gestione della sicurezza e dell’incolumità dei cittadini in questa fase di emergenza (non solo) sanitaria.
Il rapporto fra scienza, tecnologia e public policy, dunque, non si esaurisce nel fornire indicazioni al Regolatore per assumere decisioni politiche, ma investe l’essenza stessa della dialettica democratica, dalla trasparenza dei rapporti verso il cittadino, al bilanciamento degli interessi pubblici con le libertà fondamentali per il tramite di un’accettazione (o del rifiuto) della dimensione tecnologica del governo di un Paese.
In altri termini, ed è questa la sintesi, è necessario confrontarsi con il fatto che la libertà (o la schiavitù) di un Paese dipende, volenti o nolenti, dalla (in)capacità non solo di governare, ma di essere promotori dell’integrazione di scienza e tecnologia nel tessuto della nazione.
2. Scienza, dati e public policy
Il rapporto fra esercizio del potere e public policy è stato efficacemente descritto in questi termini: «Ruling is an assertion of the will, an attempt to exercise control, to shape the world. Public policies are instruments of this assertive ambition» (Goodin, 2008, p. 3).
Ma un public policing che non voglia essere praticato con metodi á la Gorgia e Callicle – e dunque sulla base della suggestione manipolativa della massa – deve essere necessariamente basato su dati ed evidenze (Brownson, Chriqui e Stamatakis, 2009) possibilmente di valore scientifico intersoggettivo. Pertanto, quando la scienza viene usata per determinare scelte politiche – e in particolare in materia di sicurezza, cioè di compressione dei diritti fondamentali – èimportante domandarsi innanzi tutto cosa sia “scienza” visto l’affollamento di discipline ed esperti che, qualificandosi come “portatori di sapere” si candidano ad essere parte del potere decisionale.
Diciamo subito, senza voler entrare in dibattito molto complesso, che in questo ambito gioca un ruolo fondamentale la possibilità di qualificare come “scientifico” il sapere prodotto da discipline diverse da quelle tradizionalmente associate al mondo delle hard science.
Abbandonata da tempo la falsificabilità popperiana come unico criterio di scientificità, l’epistemologia si è concentrata piuttosto sul ruolo della verificabilità intersoggettiva dei predicati come misura del valore di una teoria.
Sembra vi sia poca consapevolezza del metodo che da parecchi secoli ha prodotto i risultati scientifici sotto gli occhi di tutti, ossia quel metodo che si basa sulla diffusione dei dati ottenuti e sulla trasparenza delle procedure osservativo-sperimentali che dovrebbero permettere risultati ripetibili (ritrovabili in tempi diversi ma dallo stesso ricercatore usando le stesse tecniche nello stesso laboratorio) e riproducibili (ritrovabili in tempi diversi da chiunque lo possa fare usando anche tecniche e laboratori diversi). Senza trasparenza dei dati e delle procedure empiriche e senza riproducibilità, semplicemente non c’è piu? la scienza galileiana cui siamo abituati da parecchi secoli: un punto piuttosto ovvio, ma anche piuttosto trascurato, come molti avvertono (Boniolo, 2018).
Discende dal modo di applicare questi due criteri – trasparenza dei dati e riproducibilità, dei risultati – lo spostare l’ago della bilancia a favore di una conoscenza rigorosa piuttosto che euristica di una determinata disciplina. «Se si abbandonano gli usuali criteri metodologici di scientificità, come poter avversare il montante irrazionalismo cui assistiamo? Quale differenza fra scienza e magia, fra, per esempio, trattamenti medici scientificamente validati e trattamenti esoterici proposti da ciarlatani e da imbroglioni?» (Boniolo, 2018).
Rispetto, dunque, all’annosa questione della possibilità, di qualificare tali le “scienze” sociali, il problema non è l’etichetta che le definisce quanto, appunto, il livello di verificabilità intersoggettiva dei loro predicati.
Euristicamente, sociologia, diritto, economia e psicologia possono produrre risultati di limitato valore o che consentono di raggiungere risultati di breve periodo, ma non per questo sono meno importanti e non hanno bisogno di ammantarsi di scientificità, per contribuire alla crescita del sapere. Lo spiega bene Fredrick von Hayek nella lectio tenuta in occasione del conferimento del premio Nobel per l’economia nel 1974:
There is as much reason to be apprehensive about the long run dangers created in a much wider field by the uncritical acceptance of assertions which have the appearance of being scientific as there is with regard to the problems I have just discussed. What I mainly wanted to bring out by the topical illustration is that certainly in my field, but I believe also generally in the sciences of man, what looks superficially like the most scientific procedure is often the most unscientific, and, beyond this, that in these fields there are definite limits to what we can expect science to achieve (von Hayek, 1974).
Ciò che conta dal punto di vista del policy maker, dunque, è la capacità, di individuare il corretto ambito applicativo della disciplina che utilizza per decidere, evitando di dare valore generale e generalizzante a teorie e dati che non sono in grado di giustificare questa opzione.
Tuttavia, anche essendo in grado di distinguere la differente capacità, esplicativa di una disciplina e dunque la validità, delle sue conclusioni, bisogna tenere da conto che guardare alla scienza come elemento costitutivo di una scelta politica pone quattro ordini di problemi: non tutto ciò che è chiamato “scienza” lo è effettivamente, la scienza non offre certezze ma spiegazioni dalla validità limitata, essere un valido scienziato non implica possedere anche sensibilità,politica, una decisione politica può divergere da una valutazione scientifica per ragioni di opportunità – o di ignoranza.
…
Rivolgersi alla scienza, infatti, non implica per il potere politico il doverne seguire per forza le indicazioni. A volte, come nel caso del cambiamento climatico, questo accade per una precisa scelta (Meyer, 2019), perchè – come nel caso del referendum sul nucleare – la volontà, popolare è stata ritenuta prevalente sull’interesse pubblico all’indipendenza energetica, o ancora per via della scelta lato sensu politica di acquietare l’opinione pubblica. Oggi infatti – assistendo a una replica dei casi Di Bella e Stamina – siamo spettatori del caso Avigan, il farmaco anti-influenzale prodotto in Giappone assurto agli onori della cronaca come “efficace” contro il COVID-19 grazie a un video amatoriale diffuso da un turista italiano in vacanza a Tokyo.
Quello che atterrisce, come nel caso di Stamina e delle varie terapie anticancro proposte nel passato, è che questo tsunami di incompetenza riesca a convincere i politici e a indurre stimate agenzie come l’AIFA o le Istituzioni del Paese ad approvare sperimentazioni non già, richieste dai vari virologi e clinici che questi farmaci (Avigan incluso) li conoscono bene e che stanno combattendo per noi. Qui non stiamo contestando il farmaco specifico quanto la procedura che lo starebbe portando in una sperimentazione che, capiamo bene, priverebbe molti pazienti di altri farmaci attualmente molto più promettenti. Ed è su questa base che AIFA non dovrebbe cedere alle pressioni e approvare una sperimentazione fondata sulle attuali conoscenze (Bucci, Corbellini e De Luca, 2020).
Un approccio alla scienza che è complementare a quello appena descritto, caratteristico del regime emergenziale è, infine, quello fideistico. Dalla scienza, quasi fosse una dea pagana sul cui altare consumare sacrifici umani, ci si aspetta “la cura” per il male anzi, la si esige. E quando il miracolo non arriva, allora la reazione violenta e irrazionale è quella di punire la divinità, rinnegandola e mettendola sotto processo in nome di un preteso “obbligo di salvezza”.
…
Quando, però, da un’attività libera nel fine come la politica si passa alla rigidità della normazione, tutte le sfumature di quella dimensione collassano sul determinismo formale della singola fattispecie basata, almeno sulla carta, su un rigido meccanismo di causa- effetto: “se fai X, accade Y”. E allora, più che di teorie scientifiche il decisore ha bisogno – o ha anche bisogno – di numeri per sostenere il suo decisum.
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