Benvenuti a un’altra puntata de “I professionisti dell’informazione”.
Il servizio a firma di Giulia Destefanis e Valentina Evelli diffuso su Repubblica.it legittima inaccettabilmente i “ricercatori” di fenomeni paranormali e il fenomeno in sè, dando spazio in modo acritico a una superstizione ancora oggi dura a morire.
Già il titolo lascia presagire un approccio per nulla rigoroso:
“Non è un film: gli acchiappafantasmi in azione a Genova”
Il titolo è ingannevole perché induce il lettore a pensare che quello che sta per vedere ha una qualche parvenza di verità a fronte della finzione cinematografica.
La confusorietà del servizio aumenta leggendo l’articolo a commento del video che parla dell’attività di un “Istituto nazionale di ricerca e studio dei fenomeni paranormali” senza però chiarire che si tratta di una semplice associazione privata senza alcun riconoscimento scientifico o istituzionale. Non siamo di fronte a scienziati del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in altri termini, ma ad un gruppo di signori che nel loro tempo libero va in giro con un po’ di elettronica addosso a fare riprese audiovideo in luoghi “maledetti”.
Due momenti precisi del servizio costituiscono l’evidenza del suo scarso rigore giornalistico.
Il primo è quando il “ricercatore” afferma
“Segno che qua c’è una probabile presenza”
e il secondo è quando lo stesso ricercatore dichiara
“Ma finchè non andiamo ad analizzare il materiale registrato non abbiamo prove certe”
Questo è un esempio paradigmatico di ragionamento parascientifico che si basa sulla prova negativa, cioè sul pretendere di dimostrare “qualcosa che non è” alla maniera di Don Ferrante: postulo l’esistenza di ciò che non esiste e mi metto a cercarlo, non lo trovo, ma il fatto di non averlo trovato non equivale alla sua inesistenza. Tradotto: se non riesco a trovare l’Isola che non c’è, questo non vuol dire che non esiste.
E’ un ragionamento sconclusionato, certamente, ma è quello che emerge con chiarezza dal servizio sui “ricercatori” dove le due giornaliste hanno omesso di esercitare qualsiasi vaglio critico sulle informazioni che hanno veicolato verso il pubblico.
Nessuno mette in discussione il diritto di una testata giornalistica professionale di far conoscere le stramberie innocue di un gruppo di appassionati di fantascienza. Ma chiunque, da una testata giornalistica professionale, si aspetterebbe un rigore certamente più consistente di quello che caratterizza un post su social network diffuso da un “non professionista” dell’informazione.
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