Repubblica.it, in un articolo senza firma, riporta la notizia dell’entrata in vigore della legge che riabilita le persone omosessuali condannate in Inghilterra per il solo fatto di esserlo, e ribattezzata “Turing Law” in nome del geniale matematico inglese costretto al suicidio dai farmaci che una sentenza gli aveva imposto di assumere per “curarsi”.
Invece di una vera fotografia di Alan Turing, come questa, che riproduce l’originale esposto nella National Portrait Gallery londinese, Repubblica.it utilizza un fotogramma del film che, più o meno, racconta la vita dello scienziato, associando il suo nome alla “faccia” di Benedict Cumberlatch, l’attore che lo interpreta.
In nome di quale deontologia professionale, logica o – semplicemente – rigore giornalistico, si può concepire di alterare la realtà in questo modo?
Certo, la didascalia della foto dice che si tratta di un film. Ma perché parlando di fatti documentabili e documentati l’anonimo giornalista professionista – e sottolineo “professionista – ha omesso di affiancare al testo una immagine reale, preferendo la finzione?
Una risposta può essere che, oramai, la finzione (a qualsiasi livello) è diventata uno strumento di costruzione della realtà, assottigliando la linea già sottile che divide i fatti dalla fantasia. E si trova del tutto naturale “raccontare” il Far West con i film di Sergio Leone, la Seconda Guerra Mondiale con quelli di John Wayne, il Viet-Nam con il personaggio di John Rambo. Ovviamente il cinema ha (anche) una funzione “storica”: penso a film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, oppure a In nome del popolo italiano o, ancora, a Cadaveri eccellenti. Ma questo non autorizza a invertire il rapporto con la realtà introducendo surrettiziamente fra le fonti dirette alla base della ricerca storica anche cose – come i film – che non sono nè fonti, nè tantomeno dirette.
Un film – per quanto ben fatto – rimane sempre un film, mentre la Storia è un’altra cosa. E’ un mestiere difficilissimo, da praticare con il massimo rigore per limitare errori nel ricostruire un evento o spiegarne l’accadimento. Questo è il motivo che spinse Marc Bloc a scrivere l’Apologia della Storia, un libro che – evidentemente – il giornalista di Repubblica.it non ha letto.
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