ReArm Europe fra indipendenza e sovranità tecnologica

Acquistare una capacità difensiva coordinata fra gli Stati membri della UE è un percorso irto di ostacoli, dall’articolo 4 del Trattato sulla UE che vieta all’Unione Europea di occuparsi di difesa e sicurezza (che rimangono di esclusiva titolarità dei singoli Paesi), ai limiti costituzionali che, almeno in Italia, non consentono il trasferimento definitivo di sovranità a Bruxelles, né l’eliminazione del concetto di “Patria”, inevitabilmente legato ai confini geografici.

A questo si dovrebbero aggiungere le complessità operative e industriali (anche in termini di ripartizione del mercato) riguardo l’integrazione delle piattaforme di combattimento dei vari Paesi —dalle armi da fianco ai sofisticati sistemi di comando e controllo— che richiederebbe anni per arrivare a compimento e quelle causate dalla dipendenza tecnologica da Paesi esteri (USA, in particolare).

Non vanno sottovalutate, inoltre, le difficoltà di incrementare il numero dei militari operativi e combat ready perché, contrariamente al detto, il numero, da solo, non è potenza. Non basta, in altri termini avere centinaia di migliaia di soldati, ma è necessario che questa forza sia capace di operare a un livello sufficientemente elevato da evitare (o attenuare il rischio) che si verifichino tragedie come quelle raccontate da Francesco Rosi in Uomini contro.

La necessità di razionalizzare i costi

Soddisfare questa ultima necessità, in particolare, implica uno sforzo logistico notevole sia per selezionare le reclute, sia per trasformarle in soggetti minimamente in grado di operare, sia per mantenere e incrementare queste capacità.

È abbastanza evidente che in una prospettiva del genere i costi da sostenere sono elevati e, soprattutto, ricorrenti come si evince, per esempio, dalle voci “Traning and Recruiting” del budget 2023 degli US Marines.

Da qui, l’esigenza di ridurre per quanto possibile l’impatto finanziario delle attività non strettamente legate alle operazioni militari, integrando soggetti privati che possano farsi carico di componenti non critiche dell’organizzazione militare. D’altra parte, il concetto di difesa dello Stato, nel momento in cui si estende alla tutela non solo dei confini ma anche dei propri interessi (vedi il Libro bianco Ministero della Difesa 2015), e il neoassunto ruolo della Presidenza del Consiglio nella protezione delle infrastrutture critiche e delle funzioni essenziali, richiedono necessariamente un coinvolgimento del settore privato, a fronte di una regolamentazione ferrea del ruolo di questi attori.

Il ruolo dei Private Security Provider

In ambito internazionale questi soggetti sono definiti “Private Security Provider” (PSP) e si distinguono dalle “Private Military Company” (PMC) che offrono —essenzialmente— servizi di mercenariato.

Benché i confini fra PMC (incompatibili con l’ordinamento italiano) e PSP (a certe condizioni, legali nel nostro Paese) possano apparire labili, dal punto di vista teorico sono molto chiari. Se un soggetto si qualifica come Private Military Company vuol dire che eroga servizi di tipo mercenario o, come direbbero eufemisticamente gli americani, expeditionary conflict entrepreneurship. Ciò significa essere pagati per l’addestramento di forze armate (più o meno) istituzionali e per la partecipazione attiva ad azioni di combattimento di truppe (più o meno) regolari. Se un soggetto si qualifica come PSC vuol dire che eroga servizi “passivi”, come addestramento di base, protezione installazioni, scorta VIP recupero feriti, trasporto di uomini e materiale, manutenzione di mezzi, ma che non prevede di essere coinvolto in servizi “attivi” (analoghi, cioè a quelli di stretta competenza militare).

Creare un mercato italiano per startup di PSP

Già oggi, in Italia, l’attività di PSP è parzialmente svolta dagli istituti di vigilanza regolati dal Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Oltre a svolgere i tradizionali servizi di guardianìa e trasporto armi e valori, infatti, queste aziende operano già nel settore della sicurezza sussidiaria cooperando nella protezione degli aeroporti e fornendo servizi di maritime security, con personale specificamente addestrato e armato, spesso proveniente dai ruoli militari. Inoltre, e in parallelo, gli istituti di vigilanza sono spesso dotati di sale controllo e mezzi per la rilevazione di eventi critici, l’avviso alle forze dell’ordine e, dove previsto dalla legge, il primo intervento sotto il controllo dell’Autorità di pubblica sicurezza.

In un contesto del genere, non ci vorrebbe molto, concettualmente, ad espandere gli ambiti degli istituti di vigilanza fino a prevederne l’integrazione con l’apparato di difesa dello Stato, nell’ambito dei servizi passivi, rendendo disponibili uomini e risorse per il rafforzamento della difesa esterna.

Criticità tecnologiche e non solo del mercato dei PSP

La creazione di un mercato per i PSP, che siano startup o soggetti già presenti nel settore, presenta, evidentemente, diverse criticità.

La prima, e più evidente è quella del rischio di (ri)costituzione di milizie private.

Scongiurare questo rischio implicherebbe includere i PSP nel sistema della pubblica sicurezza e della protezione civile, in modo da consentire un ferreo controllo da parte dello Stato sul modo in cui operano questi soggetti, sul reclutamento e sulla formazione degli operatori, oltre a limitare la dotazione di armi e mezzi dei quali possono disporre, e a definire chiaramente regole di ingaggio e perimetro operativo.

Meno agevole, invece, è risolvere il problema dell’accesso dei PSP a tecnologie e informazioni riservate ma necessarie all’interazione e all’integrazione con le forze armate. È vero che il sistema dei security clearanceconsente a soggetti privati che ne hanno titolo l’accesso a questi ambiti informativi, ma questo accade per necessità specifiche nell’ambito consolidato dei defense contractor.

Nel caso dei PSP il problema della messa a disposizione di accessi fisici e logici a installazioni e tecnologie militari non è di semplice soluzione perché crea un dilemma operativo: come garantire un’integrazione efficace senza compromettere la sicurezza delle infrastrutture critiche e delle informazioni critiche.

Inoltre, l’impiego di PSP andrebbe valutato in termini di impatto sulla capacità complessiva di tenuta dell’apparato di difesa. Incrementare il coinvolgimento di entità private amplifica i rischi legati alle vulnerabilità informatiche, soprattutto se queste aziende non dispongono degli stessi standard di sicurezza e delle capacità di reazione delle forze armate. Sarebbe dunque necessario istituire un sistema di controlli per evitare fughe di dati, supply chain attack e possibili infiltrazioni da parte di attori ostili.

Un ulteriore elemento di criticità riguarda l’adozione di sistemi e piattaforme forniti da PSP o la loro integrazione con le piattaforme militari. Questo, come insegna lo strapotere di Big Tech nel settore civile, potrebbe creare nel tempo una situazione di dipendenza tecnologica esterna difficile da controllare, soprattutto in un contesto in cui la sovranità tecnologica europea è ancora limitata.

Indipendenza o sovranità tecnologica?

Tutto questo ragionamento si riduce alla scelta politica fra indipendenza e sovranità tecnologica.

La prima implica la possibilità di operare senza vincoli diretti da parte di attori esterni, ma non garantisce il controllo delle tecnologie utilizzate. La fornitura di equipaggiamenti, software e sistemi di comunicazione da parte di aziende non europee rischia di generare un lock-in tecnologico, rendendo difficile per gli Stati membri della UE sviluppare una capacità autonoma. La seconda significa invece controllare e sviluppare le proprie capacità tecnologiche, ma richiede un impegno economico, politico e strategico che l’UE finora non ha dimostrato di voler affrontare con decisione.

Ognuna delle opzioni ha, evidentemente, dei pro e dei contro, ma una cosa è certa: l’unica opzione che non ci si può permettere è evitare di decidere.

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