di Andrea Monti – WebMarketing Tools n.38/01
Non molto tempo fa chiacchierando durante la pausa di un convegno con un altro relatore (dirigente di una notissima multinazionale), la conversazione cadde sul problema della dispersione del patrimonio culturale aziendale. Questa persona mi raccontava di come – oramai – fosse per loro impossibile tenere traccia dell’architettura di rete della sede centrale e delle varie sedi. Dal momento che le varie installazioni susseguitesi nel corso degli anni erano sistematicamente state affidate a società esterne, che eseguivano i lavori senza “restituire” le informazioni necessarie a gestire anche le ulteriori evoluzioni delle infrastrutture. Gli unici a sapere “dove mettere le mani” – oltre ai tecnici dei fornitori – erano i dipendenti che avevano seguito i lavori e che ora – “andati in pensione” – offrivano all’ex datore di lavoro una consulenza che quest ultimo, se si fosse premunito, non avrebbe ragione di dover comprare.
Non credo che la situazione che mi è stata raccontata sia particolarmente rara o sorprendente perché, a vari livelli, dovrebbe riguardare un po’ tutte le aziende, e in particolare quelle che operano nel settore ICT. Che gestiscono l’outsourcing in maniera spesso superficiale, trascurando di inserire nei contratti delle clausole che obblighino il fornitore non soltanto a consegnare il “prodotto”, ma anche a trasferire conoscenza. In altri termini, questo significa rifiutarsi di acquistare “scatole nere” (attacca il plug, premi un bottone, e vai)e farsi trasferire anche il know how per utilizzare e gestire il prodotto.
Questo vale, in modo particolare, quando i servizi oggetto del contratto sono particolarmente critici per l’azienda, come quelli relativi allo sviluppo di applicazioni mission critical o alla “posa in opera” di sistemi di sicurezza.
Molto spesso, infatti, la complessità legata alla prestazione di queste tipologie di servizi non è legata più di tanto alla scelta tecnologica che privilegia una soluzione piuttosto che un’altra. Ciò che conta è quello che sta “a monte”; vale a dire la scelta strategica che orienta lo sviluppo di un progetto. Questa è sicuramente la merce più preziosa per un’azienda, ma è anche quella meno “commercializzata”. Anche perché – sospetto – difficilmente un fornitore sarebbe disposto a cederla.
Il problema è serio perché una gestione dell’outsourcing che non tenga presente questi aspetti, rischia letteralmente di far diventare “ostaggi” di questo o quel gruppo di consulenza.
D’altra parte, questo non significa tornare ai “vecchi tempi” dove ciascuno si faceva tutto “in casa”. Ma più semplicemente gestire l’esternalizzazione dei servizi in modo da ottenere come controprestazione anche il trasferimento di conoscenza.
In particolare, questo si può realizzare, tanto per fare un esempio,inserendo nel contratto una clausola che stabilisca la proprietà intellettuale del cliente su ogni soluzione, artificio tecnico, o innovazione che dovesse emergere nel corso dell’esecuzione del contratto.
Parallelamente, dovrebbe essere previsto un obbligo di documentazione estremamente dettagliata di tutte le attività svolte. In modo da consentire a chiunque “venga dopo” di poter ricostruire lo stato di fatto con una ragionevole facilità.
E’ evidente che, a prescindere del campo in cui ci si trova,la gestione di questi aspetti contrattuali è abbastanza complessa. Per il cliente, che vorrebbe ottenere il massimo, per il fornitore che cercherebbe di concedere il minimo.
In effetti non ci sono “regole” o “misure” univoche per stabilire quanto è effettivamente dovuto. Ma l’importante è cominciare a porsi il problema.
Bisogna inoltre considerare che il problema in questione non si manifesta con la stessa gravità a tutti i livelli, per cui è anche necessario prestare la dovuta attenzione a non complicare situazioni semplici che possono essere “trattate” senza particolari appesantimenti contrattuali.
Considerazioni banali, forse, ma stando a quello che si vede in giro, non troppo ovvie.
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