La Polizia di Stato ha annunciato un programma di formazione diretto a sviluppare la capacità di individuare i precursori delle azioni violente (i segnali che consentono di accorgersi che sta per succedere qualcosa di grave).
Il video che presenta l’iniziativa mostra – come esempio di minaccia da sventare – quello di un uomo che si aggira per la Stazione Termini di Roma con un fucile in mano e una serie di riprese “lato polizia”. Curiosamente, però, non si vedono scene relative alla neutralizzazione della “minaccia”.
La spiegazione di questa assenza è semplice: si trattava delle riprese relative al caso del fucile giocattolo imprudentemente mostrato in pubblico da una persona che non lo aveva lasciato nell’imballo e che è stata in grado di lasciare indisturbata la Stazione Termini, tanto che, come riportano i giornali, è stato identificato solo successivamente, nella stazione di Anagni-Fiuggi.
In termini di comunicazione pura, la scelta della Polizia di Stato “funziona”. Le immagini delle telecamere di sorveglianza mostrano scene praticamente indistinguibili da quelle che avrebbero potuto ritrarre un reale attentatore, armato e pronto a sparare. Ma dal punto di vista dell’etica e della correttezza dell’informazione, decontestualizzare delle scene per far raccontare loro una storia diversa da quella realmente accaduta è un’operazione intellettualmente scorretta.
Rassegnamoci al fatto – lo dico in modo volontariamente paradossale – che l’Italia non è l’America, non ci sono matti che girano armati a fare massacri e l’ordine pubblico è (ancora) essenzialmente sotto controllo.
Ecco perché la scelta di comunicazione operata dalla Polizia di Stato è scorretta: lascia intendere l’esistenza di una condizione di pericolo che, attualmente, non stiamo vivendo. E non la stiamo vivendo – ennesimo paradosso – proprio grazie all’operato delle forze dell’ordine, che non hanno certo bisogno di scorciatoie del genere per guadagnare il giusto riconoscimento del loro ruolo.
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