di Andrea Monti* – Interlex – 08.09.97
Il testo dell’ordinanza del Tribunale di Roma
Fra i tanti problemi giuridici – presunti o reali – sottoposti al vaglio degli esperti, quello della natura giuridica del nome di dominio – e quindi degli illeciti ad esso collegati o collegabili – è sicuramente uno di quelli la cui soluzione sta più a cuore, per le ovvie implicazioni ad esempio in materia di commercio elettronico. Negli Stati Uniti il fenomeno del domain grabbing, cioè del farsi assegnare nomi di dominio corrispondenti a marchi detenuti da terze parti al fine poi di rivenderli a caro prezzo, è già estremamente diffuso e anche in Italia comincia a manifestarsi lo stesso fenomeno.
In assenza di giurisprudenza che potesse fornire qualche indicazione, la dottrina non si è sbilanciata granché, limitandosi a sottolineare la forte contiguità esistente fra il nome di dominio e il complesso universo dei segni distintivi, opinione questa peraltro non unanimemente condivisa date le obiettive differenze fra le situazioni giuridiche associate al marchio e quelle afferenti al dominio (vedi in questo senso “Problemi, opportunità e rischi del commercio elettronico. Diritto del consumatore, la sicurezza dei pagamenti on line” di S.L. Folicaldi in Atti del convegno “La sicurezza delle Reti” – Milano 4 giugno 1997). Come spesso accade con problematiche (relativamente) nuove anche in questo caso è toccato alle aule di giustizia fornire orientamenti e indicazioni, vedi appunto l’ordinanza del 2 agosto 1997 resa a seguito di un ricorso ex art. 700 c.p.c. dal Tribunale di Roma, o quella del 10 luglio 1997 emanata Tribunale di Milano.
I fatti
La SEGE S.r.l., società romana che detiene i diritti di privativa sul marchio PORTAPORTESE (nota testata di annunci economici), già operante come fornitore di servizi su reti di TLC a partire dai tempi del Videotel e poi su Internet, decide di potenziare la propria presenza on line e commissiona a terze parti la realizzazione del sito che – con tutta evidenza – non avrebbe potuto che chiamarsi www.portaportese.it. All’atto della richiesta di assegnazione del dominio suddetto però si scopre che un provider capitolino, Starnet S.r.l., aveva già registrato un dominio corrispondente al nome tutelato dalla privativa e che sul sito così denominato veniva veniva offerto un servizio denominato PORTAPORTESE, IL MERCATO TELEMATICO).
A complicare le cose c’è anche il meccanismo di assegnazione dei nomi di dominio, che funziona secondo le regole di naming stabilite dal GARR, il quale non effettua nessun controllo preventivo sulla liceità della richiesta di assegnazione. Il fatto concreto appena descritto può astrattamente configurare la violazione anche contemporanea di una serie di norme e segnatamente: artt.11 e 13 l.m, artt.2043 e 2598 c.I e III C.c., art. 100 l.d.a.
Certo, nessuno ignora la complessità della convivenza fra le norme della legge marchi e quelle del Codice civile in materia di segni confusori, come è ben presente il dibattito sulla natura dell’illecito qualificato ex art .2598 C.c. rispetto a quello cui si riferisce l’art. 2043, per non parlare della spinosa questione della configurabilità di una testata telematica (che nel caso di specie non desta particolari preoccupazioni esistendo già una versione cartacea). E’ evidente che la soluzione giudiziale del problema avrebbe richiesto tempi assolutamente incompatibili con i vantaggi che l’assegnatario del dominio avrebbe ottenuto potendo proseguire indisturbato l’attività. E’ stato dunque necessario adire in via d’urgenza il Tribunale di Roma perché‚, in attesa della fase di merito che è stata da poco incardinata, inibisse quantomeno la prosecuzione dell’attività confusoria. Il 2 agosto 1997, come ho detto, a scioglimento della riserva il Giudice accoglieva il ricorso presentato dalla SEGE S.r.l.
Pur non essendo entrato nella specifica analisi delle violazioni di legge segnalate e acquisito documentalmente il fumus boni juris, il provvedimento afferma la natura oggettivamente confusoria del comportamento tenuto dalla STARNET S.r.l – anche in considerazione della sostanziale assimilabilità dei servizi resi al pubblico, dice il Giudice – e di conseguenza la sussistenza del periculum in mora, elemento necessario ai fini della concessione della cautela consistente nell’enorme potenzialità diffusoria del messaggio in Rete.
Il riferimento alla confusorietà sembrerebbe consentire l’estensione del ragionamento anche ai casi nei quali il dominio non è esattamente identico ma molto simile, come ad esempio www.porta-portese.it (peraltro registrato come surrogato dal legittimo titolare del nome) e comunque relativo ad attività commerciali sostanzialmente analoghe. Una interessante considerazione dell’ordinanza è quella che nega valore alcuno all’avere il resistente inserito – successivamente alla notifica del ricorso – una dicitura nella quale dichiara di non essere collegato alla legittima titolare del marchio PORTAPORTESE, sulla base dell’estrema labilità di questa soluzione che può essere vanificata in qualsiasi momento e che quindi costringerebbe il ricorrente a dover monitorare 24 ore al giorno il sito del concorrente per verificarne il comportamento osservante.
Altro passo fondamentale dell’ordinanza è quello che si occupa del GARR: l’assegnazione di un nome di dominio è un fatto tra privati e come tale inidoneo a ledere i diritti di terze parti, con ciò chiarendo – ritengo definitivamente – che tale assegnazione non ha alcun valore erga omnes.
Di contenuto essenzialmente analogo è il provvedimento milanese, che ha avuto ad oggetto sempre un ricorso ex art.700 c.p.c. presentato dalla società che detiene i diritti sul nome AMADEUS nei confronti della LOGICA di Milano che – avendo registrato appunto il dominio WWW.AMADEUS.IT – forniva tramite Internet servizi analoghi o comunque assimilabili a quelli del legittimo titolare della privativa. Anche in questo caso il Giudice ha applicato le norme già ricordate in precedenza e ha inibito l’uso del nome in questione, facendo rilevare che il top level domain “.it” non ha alcuna efficacia distintiva o caratterizzante, per cui il punto di riferimento è senz’altro ciò che sta fra WWW e .IT (nel caso di specie). Di questo provvedimento è opportuno sottolineare, fra l’altro, due cose. La prima è l’affermazione secondo la quale un sito web è il luogo virtuale dove l’imprenditore incontra il cliente (che qualcuno si sia finalmente accorto che esiste il domicilio informatico?), mentre la seconda è l’assenza di qualsiasi riferimento al GARR (che in questo procedimento, contrariamente a quanto accaduto nell’altro caso qui indicato, non è stato affatto chiamato in causa). In linea di principio, affermata giudizialmente la confusorietà del dominio, non potrebbe la Naming Authority rifiutarsi quantomeno di sospendere (o addirittura di revocare) l’assegnazione del dominio pena una possibile corresponsabilità nei danni ulteriori che dovessero poi emergere in sede di merito. Credo tuttavia che il dato più interessante che emerge dall’analisi di questi provvedimenti è che ancora una volta il cosiddetto “Diritto del Ciberspazio” si vede sottratto un altro settore strategico di intervento a vantaggio dell’applicazione di principi giuridici che in quanto tali mostrano intatte efficacia e valore. Ciò non significa che lo sviluppo di servizi a valore aggiunto (VAS) su reti di telecomunicazioni sia argomento scevro da ambiti problematici, ma ciò non legittima in alcun caso – quando si chiede l’emanazione di nuove leggi – il dimenticare le parole – dettate dal buon senso ancora prima che da tutto il resto – che furono care a Guglielmo da Ockham: entia non sunt multiplicanda…
*Avvocato in Pescara
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