Lo squarcio del velo di ipocrisia sui motivi che hanno spinto l’amministrazione Trump a usare i dazi e le recentissime deboli dichiarazioni muscolari della Commissione Europea, evidenziano il problema strutturale della UE: l’assenza — nel settore delle tecnologie e non solo — di una visione strategicamente realistica di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Italian Tech
“Action beats reaction” — l’azione è più veloce della reazione — è un principio consolidato nella teoria dello scontro. Dal duello cavalleresco alla Blitzkrieg (la guerra lampo), agire per primi conferisce un vantaggio strategico e tattico nei confronti dell’avversario. Mentre, infatti, l’attaccante sa esattamente cosa e come sta per accadere, chi subisce l’azione deve inevitabilmente perdere tempo per capire, organizzarsi e reagire. Fino a quando l’iniziativa è nelle mani di chi si è mosso per primo, quindi, è estremamente difficile contrastare efficacemente le azioni avversarie perché ci si troverà irrimediabilmente a “inseguire” o a dover combattere in tempi e luoghi decisi dall’altra parte.
Big Tech e il controllo dell’iniziativa
Impadronirsi dell’iniziativa non è un principio che vale soltanto nei conflitti armati perché è applicabile, ed è applicato, nel mondo dell’industria e in modo particolare, da Big Tech. Venticinque anni fa, in un’intervista a David Sheff, Jeff Bezos spiegava il proprio successo dicendo che mentre gli altri si preoccupano di capire quello che fa Amazon, Amazon pensa a fare cose nuove. Il nostro segreto, diceva, “è che non siamo ossessionati dalla concorrenza. Siamo sempre stati ossessionati dall’esigenza di servire meglio i nostri clienti, mentre i nostri concorrenti erano ossessionati da Amazon”.
Break things and move fast — rompi tutto e muoviti velocemente— è stato a lungo il motto di Facebook.
“Meglio chiedere scusa che permesso” è un mantra storico nel mondo delle tecnologie dell’informazione: ha reso possibile la diffusione di tecnologie come i motori di ricerca e l’intelligenza artificiale generativa che, oggettivamente, non sarebbero mai uscita dai laboratori se si fosse dovuto aspettare di avere delle regole chiare sull’uso dei contenuti e dei dati.
L’errore strategico della UE è stato di non controllare l’iniziativa politica sulle tecnologie
Il dominio sull’iniziativa non si ottiene casualmente ma è frutto di una preparazione accurata basata sulla raccolta informativa e sulla comprensione delle debolezze del (futuro prossimo e remoto) nemico. Questo concetto è sintetizzato nella versione “presentabile” di un adagio utilizzato nell’esercito inglese: un’adeguata preparazione previene risultati fallimentari. E a quanto pare, Big Tech ha ampiamente applicato questa regola, se è vero che gestisce le proprie strategie con un approccio basato sull’occupazione preventiva di spazi e sul contenimento dei tentativi istituzionali di “liberarli” concedendo soltanto lo stretto necessario.
Tuttavia, per essere preparati adeguatamente bisogna essere pragmatici: partire dai fatti e su quelli costruire strategie, non il contrario, come invece ha storicamente fatto l’Europa fin dalla prima direttiva sulla protezione dei dati personali adottata nel 1995.
Quella direttiva, impropriamente associata alla “privacy” pose le basi per la “guerra dei trent’anni” sui dati che ancora oggi si combatte fra USA e i 27 Paesi della UE.
Per lungo tempo il conflitto è stato mantenuto a bassa intensità, affidando alle autorità nazionali di protezione dei dati il compito di fare delle sortite su questa o quella questione specifica, applicando sanzioni milionarie ma senza affrontare i problemi alla loro radice. Tuttavia, solo di recente con l’aggiunta al regolamento sulla protezione dei dati personali (il “GDPR”) di quelli sui servizi digitali e sul mercato digitale, la UE ha accentuato l’uso delle norme come strumento di lawfare — applicazione geopolitica del diritto.
Come se non bastasse, l’ipernormativismo europeo si è tradotto in ulteriori direttive e regolamenti in materia di infrastrutture critiche, di resilienza dei mercati finanziari, di governo dei dati. Questi provvedimenti stanno già avendo un pesante impatto burocratico sull’amministrazione e sui mercati, ma —come nel caso del GDPR— gli effetti diventeranno percepibili ai più solo quando sarà troppo tardi.
Una prova storica di quello che potrebbe accadere è fornita appunto dal regolamento sulla protezione dei dati personali.
Emanato nel 2016 (e dunque pensato con la testa rivolta agli albori del 2000), entrato in vigore nel 2018, soltanto ora è oggetto di timide ammissioni sulla sua inadeguatezza e sulla necessità di snellirlo. Nel frattempo, come ha rilevato Mario Draghi, soldi e —soprattutto— sviluppo di tecnologie, prodotti e nuovi mercati degli Stati membri sono stati sacrificati sull’altare delle “regole”.
In sintesi, mentre l’Europa faceva norme, il resto del mondo, a Oriente e Occidente, costruiva il futuro tecnologico e politico.
La necessità di una strategia tecnologica di medio-lungo periodo
Che l’attacco agli interessi USA nel settore dei dati avrebbe, presto o tardi, innescato reazioni dure era abbastanza evidente ed è stato rilevato in molte occasioni. Ciononostante, la UE ha sistematicamente sottovalutato questo scenario o —che è la stessa cosa — sopravalutato la propria capacità di risposta.
Le conseguenze della miopia di questa visione sono sotto gli occhi di tutti: contro ogni razionalità, la Commissione continua ad includere Big Tech fra i possibili destinatari dei contro-dazi senza, nel frattempo, pianificare una reale strategia parallela di indipendenza tecnologica e di decoupling dai servizi USA.
Eppure, nel settore automotive, la decisione di abbandonare una tecnologia consolidata e fondamentale per l’industria europea è stata presa senza tentennamenti, ritenendo che i vantaggi di lungo periodo sarebbero stati superiori a agli inevitabili problemi di breve.
Che, poi, le cose non siano andate esattamente come previsto nella riconversione all’elettrico non cambia i termini della questione: solo stabilire obiettivi per il futuro consente di gestire gli eventi (anche tumultuosi) del presente.
Dunque, è chiaro che nell’immediato non si può liberare l’Europa della tentacolare presenza di software e servizi stranieri, ma questo non vieta di pianificare ora una strategia di medio periodo che raggiunga questo risultato.
Una sfida del genere è realmente epocale, visto che, tecnologicamente, la UE deve passare fra lo Scilla americano e il Cariddi cinese, dovendo evitare di schiantarsi sotto i colpi dell’uno o dell’altro. Ma senza ripetere cose già dette, ci sono delle misure di sistema che possono essere adottate da subito. Basta pensare all’obbligo strutturale dell’uso di software open source nelle pubbliche amministrazioni e a quello di gestire il ciclo di vita di hardware e software non sulla base delle strategie di chi li realizza ma tenendo in conto gli interessi di chi li deve usare. Da un lato si rinforzerebbe non poco l’autonomia dell’Unione, dall’altro si innescherebbe un processo virtuoso di redistribuzione della ricchezza trattenendo negli Stati membri i costi di licenze e royalty che, invece, finiscono oltre oceano.
In altri termini, sarebbe più sensato imporre una decisa svolta alle politiche sullo sviluppo tecnologia che valorizzi i mercati interni e riduca la dipendenza estera. Questa sarebbe una scelta strutturale e con effetti duraturi nei confronti degli attacchi che arrivano da fronti esterni, siano essi occidentali o meno, sia sul fronte dell’economia, sia su quello della sicurezza nazionale.
Quale ruolo per i dazi tecnologici?
Anche i dazi tecnologici potrebbero avere un posto in uno scenario del genere, ma solo se inseriti in una strategia diretta ad aprire un fronte diverso, controllato in termini di se, dove e quando, dalla UE, nel quale fronte gli USA dovrebbero trasformarsi da attaccanti in attaccati.
Il timore, invece, è che la strategia pensata a Bruxelles sia quella dell’addà passa a nuttata che Eduardo teorizzava in Napoli Milionaria, scommettendo dunque di poter resistere abbastanza perché, dall’altro lato dell’Atlantico, succeda qualcosa —qualsiasi cosa— che consenta di arrivare al sorgere del sole.
A condizione di resistere abbastanza a lungo per vedere l’alba, è vero che dopo il buio deve per forza arrivare la luce. Ma è anche vero che la luce illumina impietosamente tutto quello che è rimasto, macerie comprese.
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