Perché ho scritto Spaghetti Hacker

Computer Programming n.ro 68 del 01-03-98

di Andrea Monti

Una delle malattie più diffuse nell’Italia di questi ultimi tempi è il pubblicare libri.

Un numero sempre più grande di persone viene contagiato da questo virus che spinge inesorabilmente a raccontare di lettere alle nonne, di sesso fai-da-te e di come diventare un venditore di successo e sa Iddio cos’altro. Purtroppo anche io – lo confesso – ho contratto il male e sono finito ad ingrossare (insieme al coautore  Stefano Chiccarelli) le fila dell’esercito di pennaioli che ingolfa gli scaffali delle librerie, con un volumetto dal titolo “Spaghetti Hacker”.

Conscio di questa condizione avrei dovuto – conformandomi ad una regola di buona educazione – quantomeno astenermi dal parlarne in prima persona, ma una recensione pubblicata a firma di Manlio Cammarata sulla rivista McMicrocomputer dello scorso marzo mi ha fatto cambiare idea; non è dunque per farmi pubblicità a vostre spese J che ho messo su tutta questa manfrina.

Due parole sul libro. Il titolo è – credo – sufficientemente esplicito: si parla di hacker italiani (di quelli veri e non delle burlette inventate di sana pianta da stampa e televisione) partendo dai tempi dello Z80, attraversando le nebbie del videotel fino alla realtà contemporanea. E’ un tentativo di restituire dignità a tutti gli smanettoni che nel corso degli ultimi vent’anni hanno “fatto la storia” dell’informatica, una storia poco nota ai più ma non meno importante di quella ufficiale, una storia che la superficialità dilagante sta cercando (volontariamente o no, poco importa) di cancellare.

Il nucleo di tutto il lavoro sta in un concetto: una cosa sono gli “smanettoni” altro sono i delinquenti che – ad esempio – usano strumenti elettronici per svuotare i conti correnti e scappare con la cassa. Questa è una differenza tanto fondamentale quanto sistematicamente ignorata anche in ambiente giuridico: l’importate è trovare un capro espiatorio innocuo e incapace di difendersi poi si vedrà… e proprio questa l’argomento che ha suscitato le “ire” del giornalista.

 

Tutti delinquenti

Dice Cammarata: Gli autori insistono nel distinguere il “vero” hacker – termine che traducono in italiano con “smanettone”, dal “pirata”, il delinquente informatico o telematico, che danneggia i sistemi, altera le informazioni o se ne impadronisce. Insomma, un mondo diviso tra buoni e cattivi, con l’ovvio corollario che i cattivi sono sempre gli altri. E si sforza, l’avvocato Monti, di dimostrare che i comportamenti dei suoi “clienti” non costituiscono reato anche alla luce della legge, e che molto spesso la colpa è delle vittime che non prendono le dovute precauzioni per proteggere i sistemi. Ma il pubblico ministero potrebbe chiedere: se, tornando a casa, lei trovasse un ragazzotto che, dopo aver forzato la porta, sta frugando nei suoi cassetti, sarebbe disposto a credere alla spiegazione che si trova lì perché “ho un’innocua passione per i cassetti altrui, mi piace sapere che cosa le persone ci tengono dentro… Rubare? per carità, mai passato per la testa, i ladri sono gli altri! E poi, caro signore, se sono entrato è colpa sua, perché la porta non è abbastanza robusta e la serratura è una schifezza. Sa cosa le dico? Io la denuncio perché lei non ha installato un sistema di allarme”!

Per quanto stilisticamente apprezzabile, il paragone non regge.

La propria casa come un computer? Ma andiamo… è semplicemente pazzesco!

Ovviamente non devo dire a voi che cosa sia un computer J e quanta differenza ci sia fra un mucchietto di silicio e un solido in cemento armato, il punto è che sono proprio queste analogie concettuali che alla prova dei fatti creano confusione: il semplice accesso ad un sistema non è di per sé indice di alcuna pericolosità sociale, a meno che non porti alla luce deficienze altrui (dal sysadmin al venditore di “antifurti digitali”) che peraltro non sono nemmeno sanzionate dalla legge e allora, a scanso di equivoci, giù botte al criminale intrusore…

 

Si fa presto a dire “Legge”

Potreste pensare – dissentendo legittimamente dalle mie opinioni – che le convinzioni espresse nel libro siano frutto di una concezione radicale di matrice ciberpunk… come dice Cammarata, se c’è una legge questa deve essere rispettata e finché l’hacking è punito dal codice penale c’è poco da discutere arrampicandosi sugli specchi. Voglio essere chiaro: così come nel caso della duplicazione di software ho chiaramente scritto – e in più occasioni – che non sono a favore della duplicazione abusiva ma non ritengo accettabile il ricorso indiscriminato alla sanzione penale, così – riguardo all’hacking – non intendo sostenere la tesi del free for all ma con altrettanta certezza non credo che la legge attuale serva a qualcosa; il punto è che fino a quando la confusione continuerà a regnare sovrana, nessuno di noi può aspettarsi qualcosa di buono. La dimostrazione di quanto sostengo arriva – ancora una volta – direttamente dai mezzi di informazione: ricorderete che nel febbraio scorso è stata diffusa la notizia dell’ennesima intrusione al Pentagono e Il Corriere della Sera commentando il fatto apre dicendo: sono due ragazzini più pericolosi di Saddam Hussein… pazzesco!

Tornando a bombaJ, a parte la non correttezza generale dell’argomento di cui sopra (non sempre – anzi quasi mai – la legge è fissa ed immutabile) il fatto che esista una norma non significa automaticamente che questa sia giusta (già gli antichi romani avevano coniato un detto estremamente indicativo: summum jus, summa iniuria): le leggi si possono cambiare.

E lo si può fare considerando che negli Stati Uniti, paese sul cui progresso tecnologico nulla credo ci sia da dire, il problema dell’accesso abusivo è stato affrontato e risolto in modo estremamente pratico: per giungere alla cognizione di un giudice penale, l’azione deve essere stata volontaria e deve avere provocato un danno di (se non ricordo male) almeno duemila dollari.

No! Risponde Cammarata: Che… la legge americana regoli diversamente la questione, non può essere portato a scusante del comportamento di un italiano in territorio italiano. E, comunque, per il puro gusto della discussione, si dovrebbe dimostrare che la legge americana è migliore della nostra…

La prima parte del ragionamento è veramente corretta; ognuno ha la legge che si merita. A questo punto però vorrei capire come mai quando c’è da prendere esempi – praticamente in ogni settore dello scibile – ci si rivolge sistematicamente oltreoceano e proprio in questo caso – una materia complessa i cui problemi sono già stati analizzati dai giudici americani – si tira fuori dal cilindro un campanilistico attaccamento all’italico legiferare che sul terreno informatico sta provocando solamente devastazione.

Ciononostante, le posizioni del giornalista e – devo presumere – della testata sono improntate al concetto di Law&Order (Legge e Ordine, per i non anglofoni) come si capisce esplicitamente, nel passo che ammonisce alla obbedienza assoluta (e acritica?): affermare il contrario adducendo motivi ideologici non sarà “apologia di reato”, ma è comunque difficilmente accettabile.

Chissà cosa ne pensano gli obiettori di coscienza che dopo anni di carcere militare sono riusciti a vedere riconosciuto per legge il proprio diritto a non impugnare le armi…

Il paragone è un po’ forte? Può essere, in fondo entrare in un sistema non è minimamente comparabile alla lotta antimilitarista, il fatto è che con la scusa degli hacker, dei pervertiti, dei pirati del software cominciano a chiudersi tutti gli spazi di espressione che per la prima volta una tecnologia aveva messo a disposizione della gente. Rubando una frase a Giancarlo Livraghi potrei dire che con la scusa di metterci il bavaglino, ci mettono il bavaglio.

Sono fatti gravissimi che purtroppo non sono fantascienza, stanno già accadendo e – quel che è peggio – nell’indifferenza generale.

Ecco perché ho scritto Spaghetti Hacker.

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