A contribution to the analysis of the legal status of cryptocurrencies
This paper advocates that cryptocurrencies such as Bitcoin or Ethereum don’t challenge the current legal system, since they fit comfortably enough into the immaterial asset legal definition. As such, while a blockchain-based cryptocurrency can’t be considered as legal tender or electronic money, it can be exchanged on a contractual basis as it happens with every other kind of good. As per the alleged crime-supporting role of cryptocurrencies by away of the anonymity of the blockchain transactions, this article demonstrates that the anonymity granted herein is not absolute. Therefore it is not correct to claim that this technology has been built, by design, to foster illegal behaviour. This is an important finding because, in the opposite case, there would have been room to affirm the impossibility to use a cryptocurrency as part of an agreement because of its intrinsic illegal nature.
Keywords: legal tender – private money – electronic money – asymmetric encryption – blockchain forensic – cryptocurrencies.
di Andrea Monti – Ragion pratica vol. 51 – dicembre 2018 – pagg. 361-377
Premessa
L’analisi del fenomeno delle criptovalute richiede un approccio multidisciplinare che consideri, oltre agli aspetti legati all’utilizzo convergente e sinergico di al- goritmi, software e infrastrutture ICT, nonché le categorie economiche afferenti alla creazione e alla trasmissione del valore e, in particolare, del significato del concetto di «moneta».
1. Le tecnologia delle criptovalute da Digicash a Bitcoin
Le criptovalute sono un’applicazione della crittografia asimmetrica 1 e delle firme digitali 2 che consente la creazione e la trasmissione di valore economico, senza il ricorso ai tradizionali strumenti di pagamento o a forme di moneta elettronica. La prima criptovaluta risale al 1989 ed è descritta in un articolo pubblicato da Scientific American nel 1992 3 di David Chaum, creatore del sistema di «contante elettronico» chiamato Digicash, un’applicazione evoluta delle firma digitale basata su quelle che Chaum chiama blind signature – firme cieche.
Nel modello progettato e realizzato da Chaum, le firme cieche con- sentono la circolazione di crediti dematerializzati con le stesse caratteristiche del contante (anonimato e non tracciabilità), ma con la sicurezza che nessuna delle parti coinvolte (il pagatore, il ricevente e il garante – la banca) possano ripudiare la transazione. Una transazione Digicash vede la necessaria partecipazione dell’e- mittente (che può essere una banca «tradizionale», ma non necessariamente) e un correntista. Ciascuna delle due parti contribuisce alla creazione della «banconota elettronica»: l’emittente tramite la creazione di un file firmato digitalmente, al quale viene assegnato un valore economico, e il correntista tramite l’associazione di questa banconota elettronica a una sorta di numero di serie. L’anonimato della banconota elettronica è realizzato tramite l’invio, da parte del correntista, di un numero seriale da associare alla banconota realizzato in modo che l’emittente non possa venirne a conoscenza.
Schematizzando, il processo di emissione di una banconota elettronica si svolge secondo le fasi che seguono:
- l’emittente crea delle banconote elettroniche dichiarandone il va- lore ? poniamo, un Euro ? le firma con la propria chiave privata (in modo che siano verificabili grazie alla chiave pubblica dell’emittente) e diffonde la propria chiave pubblica, in modo che sia possibile imputare all’emittente la provenienza del documento,
- il correntista che intende prelevare un Euro dall’emittente genera un seriale-banconota (sufficientemente lungo da ridurre significativamente la probabilità di coesistenza contemporanea di due numeri uguali) e firma digitalmente questo seriale-banconota con la propria chiave privata (senza che sia
necessario dichiarare la propria identità), rendendo disponibile la propria chiave pubblica. Per garantire, infine, l’anonimato del correntista-acquirente, Digicash gli consente di oscurare il seriale-banconota, moltiplicando il seriale-banconota per un numero grande a piacere, ma noto solo al correntista. In questo modo la banca assocerà la propria banconota elettronica a un file che contiene il seriale, ma senza conoscerne il valore; il correntista, una volta ricevuta la banconota-elettronica, potrà eseguire in senso contrario l’operazione iniziale (dividendo, dunque, il seriale-banconota per il numero utilizzato per oscurarlo), entrando così in possesso di una banconota elettronica spendibile, ma non tracciabile.
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L’emittente verifica la firma del correntista, la rimuove dal seriale- banconota, che viene siglato con la firma associata a una banconota elettronica del valore richiesto dal correntista e così addebita l’equivalente sul conto del correntista;
- infine, l’emittente invia al correntista il seriale-banconota firmato con la chiave privata associata al file, che contiene la dichiarazione di valore della banconota elettronica di cui al punto 1, e una ricevuta, firmata digitalmente, dell’operazione.
Ottenuta l’emissione della banconota elettronica, il correntista può spenderla utilizzando una smart-card che funziona, concettualmente, come un carta di credito. E dunque, quando l’acquirente si offre di pagare un acquisto tramite Digicash accade che:
- tramite il POS dell’esercente, l’acquirente-correntista invia all’e- mittente della banconota elettronica una di quelle che l’emittente ha inviato all’acquirente-correntista;
- se la banconota elettronica non risulta ancora utilizzata, dunque valida, l’emittente accredita l’importo sul conto dell’esercente e gli invia conferma dell’operazione, sempre firmata digitalmente;
- il correntista acquirente riceve il bene acquistato e una ricevuta elettronica dell’operazione.
Dal punto di vista tecnologico, Digicash non era un progetto particolarmente innovativo perché utilizzava (pur intelligentemente) strumenti e sistemi consolidati. Esso scontava, inoltre, l’indisponibilità di reti pubbliche di telecomunicazioni e di servizi associati per facile uso da parte dei cittadini, cosa che limitava fortemente l’utilità di un tale sistema, che sarebbe stato molto più utile ed efficiente in un momento di maggior sviluppo tecnologico. Anche dal punto di vista degli strumenti di pagamento, il modello su cui si basava Digicash era sostanzialmente tradizionale perché concepito per essere centralizzato e per interagire con il sistema bancario tradizionale. Per funzionare, infatti, esso aveva bisogno di un soggetto emittente banconote elettroniche, presso il quale doveva essere presente un conto sul quale addebitare o accreditare i movimenti generati dall’uso delle banconote elettroniche. Non a caso, uno dei soggetti che, all’epoca, esplorò approfonditamente le possibilità offerte da questo strumento di pagamento fu l’americana Citibank. Tuttavia, pur avendo le caratteristiche del contante, sarebbe sbagliato considerare le transazioni Digicash alla stregua del denaro liquido perché c’è sempre necessità di un «conto di appoggio» su cui veicolare l’impiego delle banconote elettroniche ma, soprattutto, perché le banconote elettroniche non hanno un valore intrinseco, rappresentando piuttosto una sorta di garanzia dell’esistenza, sul conto del correntista, della effettiva disponibilità di valuta corrispondente al valore dichiarato. In sintesi, quindi, una transazione Digicash produce gli effetti equivalenti a quelli dell’uso del contante, ma non «è» denaro liquido.
Considerazioni parzialmente diverse valgono per le criptovalute moderne che, anticipando quanto si dirà in seguito, aspirano ad avere un valore intrinseco e non presuppongono necessariamente l’esistenza di un deposito di moneta avente corso legale a garanzia del valore rappresentato dal Bitcoin o dall’Ether che siano.
A differenza del modello Digicash, che considera la componente network un mero strumento di trasporto dei dati che costituiscono la transazione, una moderna piattaforma per la gestione di criptovalute è strutturalmente legata alla tecnologia blockchain 4 e, dunque, inscindibilmente connessa alla disponibilità individuale di risorse di rete distribuite e connesse tramite reti pubbliche di comunicazione elettronica.
Un elemento che caratterizza ed evidenzia la differenza della tecnolo- gia blokchain, da quelle tradizionalmente associate al trasferimento elettronico di fondi, è che per funzionare essa ha bisogno di un profondo cambio culturale nelle persone cui si rivolge. Mentre Digicash può agevolmente essere percepito dall’utente come l’ennesima variazione sul tema «carta di credito», nel caso di servizi basati su tecnologia blockchain all’utente è chiesto di superare il tradizionale atto di fede nei confronti di «parti fidate» e dunque di istituzioni «affidabili» come, appunto, banche o emittenti di carte di credito. «L’idea è che delegare la gestione dell’affidamento a un network decentralizzato guidato da un protocollo condiviso invece di affidarsi a un intermediario fidato, e introducendo nuove forme di moneta digitale, token e beni immateriali, possiamo cambiare la natura stessa dell’organizzazione sociale» 5. Questo aspetto della tecnologia blockchain è tanto importante quanto non immediatamente percepito, perché sostituisce il fondamento stesso del sistema politico-economico su cui sono basate la creazione e la circolazione di valore (su questo ritorno fra poco). Inoltre, non c’è una corrispondenza biunivoca fra questa tecnologia e le criptovalute. Anzi, nulla vieta che banche e istituzioni tradizionali si avvalgano di un sistema del genere per gestire le loro transazioni e i rapporti con la clientela.
In altri termini, dunque, il Bitcoin ha bisogno di una tecnologia blockchain, ma non è vero il contrario, nel senso che una tecnologia blockchain può essere usata per scopi diversi da quelli della creazione e trasferimento di valore.
È il caso della piattaforma Ethereum che, oltre all’Ether (una criptovaluta sostanzialmente analoga a Bitcoin) che, pur condividendo con Bitcoin la stessa impostazione basata sul ledger, come strumento di garanzia degli utenti, e sul mining, come forma di approvvigionamento della valuta, viene utilizzata nell’ambito del processo di gestione dei cosiddetti «smart contracts» 6
Le criptovalute moderne, dunque, da un lato, si avvantaggiano di tutto questo ma, dall’altro, soffrono ? almeno potenzialmente ? delle criticità giuridiche e regolamentari provocate dalla tecnologia blockchain, a partire dalla possibilità stessa di includere la criptovaluta all’interno della nozione economico-giuridica di «moneta».
2. Il rapporto fra criptovaluta e la nozione economico/giuridica di moneta
Mentre è pacifico che Digicash difficilmente avrebbe potuto essere considerata
«moneta» in senso tecnico, non è esattamente così per le criptovalute moderne. Dal punto di vista funzionale, le caratteristiche della moneta sono state modellate ? prima dell’avvento della moneta elettronica o, meglio, del trasferi- mento elettronico di fondi ? sull’oggetto fisico che esprimeva il valore di scam- bio. Dunque, tradizionalmente si ritiene che, per essere tale, una moneta debba possedere, almeno, i requisiti di: non deperibilità (per consentire la permanenza del valore), scarsità (per consentire lo scambio e, dunque, la circolazione della moneta, ma senza abbassarne il valore), divisibilità (per consentire il pagamento di prezzi differenziati).
Astrattamente, le criptovalute sono dotate delle stesse proprietà: un Bitcoin, come una banconota o una moneta, non si consuma con l’uso, è scarso (c’è un limite al numero di Bitcoin che possono essere prodotti tramite il mining) ed è frazionabile in «Satoshi». Ma il fatto di possedere le caratteristiche funzionali di una moneta non implica che una criptovaluta ? al di là del modo in cui viene chiamata ? possa essere riconosciuta come tale in senso giuridico. Battere moneta ? e dunque controllare la ricchezza dei consociati/sudditi/cittadini ?, infatti, è una prerogativa che il potere costituito ha sempre esercitato, anche se la compiuta teorizzazione secondo la quale questo potere è un attributo esclusivo della sovranità statale matura nel XVI secolo, quando nel 1578 Jean Bodin scrive Les Six livres de la Republique dove sostiene che:
Il potere di legiferare include tutti gli altri diritti e le caratteristiche della so- vranità, tanto che si potrebbe affermare che questo sia l’unico attributo della sovranità stessa dal momento che tutti gli altri ne fanno parte come … dare e togliere valore e peso alle monete 7
Ciò non toglie che, nel corso del tempo, alla moneta di diretta emanazione del potere se ne siano spesso affiancate altre. Va infatti ricordato che il fenomeno della «moneta privata» ? cioè di una forma di gestione dei rapporti credito/debito ? sganciata dal controllo statale è tutt’altro che recente.
Come osserva, infatti, Geoffrey Ingham nel suo saggio Nature of Money. New Direc- tions in Political Economy, «la moneta-credito capitalista fu il risultato di due cambiamenti correlati nelle relazioni sociali della produzione monetaria nell’Europa medievale e all’inizio dell’età moderna. In primo luogo, i mezzi privati di scambio (lettere di cambio) usati nelle reti mercantili di vennero indipendenti dall’esistenza di qualsiasi merce di scambio e transito, e venivano utilizzati dalle parti come puro credito. Successivamente, in un altro passaggio fondamentale, le lettere di cambio divennero svincolabili dai singoli soggetti nominati nella relazione creditore-debitore. Questi titoli simbolici di debito erano trasferibili a terzi e potevano circolare come moneta privata all’interno delle reti commerciali. […] Per la prima volta, la produzione estesa di una forma di moneta si sviluppò al di fuori del monopolio statale dell’emissione di valuta» 8 Dal punto di vista della pura operatività, dunque, è noto da secoli che la funzione della moneta a corso legale è assolta in piena legalità anche da stru- menti diversi dal conio statale, e basati esclusivamente sulla convezione di fatto stipulata fra i vari attori del mercato.
Infine, è un dato acquisito il fatto che a fianco delle monete battute dagli Stati, nell’esercizio della loro sovranità monetaria, abbiano circolato e circolino cosiddette private currency, anche se, come scriveva Friedrich Hayek
«esistono e sono esistite valute […] senza che i governi se ne occupassero, ma raramente è stato consentito loro di esistere a lungo» 9
In sintesi, dunque, non esiste un motivo oggettivo per il quale solo la moneta emessa dallo Stato debba essere l’unica ad avere un valore legale:
si tratta di una costruzione forzata e innaturale che poteri arbitrari hanno messo in piedi sulle attività degli uomini […] La verità è che il corso legale della moneta è uno strumento giuridico per costringere le persone ad accettare, quale mezzo di adempimento ad un contratto, qualcosa che non avrebbero mai preso in considerazione all’atto della stipula» 10
3. La criptovaluta come bene immateriale
Fatte queste premesse, innanzi tutto è chiaro che il modello Bitcoin ? o in generale quello delle criptovalute ?, da un punto di vista funzionale, è perfettamente coerente con la nozione economica di ‘moneta’. Ma si dovrebbe riflettere se, al di là del nome, sia corretto qualificarle giuridicamente come ‘moneta’ o ‘valuta’, oppure se sia possibile/opportuno ricondurre le criptovalute nell’ambito di altri istituti giuridici di matrice civilistica.
Una criptovaluta non è certamente un titolo di credito, perché i titoli di credito sono tipici e regolati dalla legge. E nemmeno la si può agevolmente equiparare a una carta di credito, o ad altri strumenti di pagamento rientranti nella categoria della «moneta elettronica», e men che meno in quella della mo- neta tout-court. Fino a quando rimane valido il presupposto politico-giuridico secondo cui battere moneta è prerogativa dello Stato, una criptovaluta non può dirsi – tecnicamente – denaro, perché, come si è detto, la moneta è espressione della sovranità nazionale o (nel caso dell’Euro) sovranazionale.
Escluso che le criptovalute ? ancorché incorporate in supporti fisici ? possano costituire una «moneta» o una «banconota» ai sensi del Regolamento CE 974/98 relativo all’introduzione dell’Euro, bisogna ora chiedersi se una criptovaluta possa rientrare nell’ambito della cosiddetta «moneta elettronica».
Nella più risalente normativa comunitaria di riferimento (la direttiva 2000/46/CE) 11 , il Considerando n. 3 diceva testualmente:
Ai fini della presente direttiva, la moneta elettronica può essere considerata un surrogato elettronico di monete metalliche e banconote, memorizzato su un dispositivo elettronico, come una carta a microprocessore o una memoria di elaboratore, e generalmente destinato a effettuare pagamenti elettronici di importo limitato».
Il successivo Considerando n. 6 stabiliva che:
Gli enti creditizi, in forza del punto 5 dell’allegato I della direttiva 2000/12/CE, sono già autorizzati ad emettere e gestire mezzi di pagamento, tra i quali la moneta elettronica», mentre, infine, l’art. 1 comma 3 lett. b) definiva «moneta elettronica» «un valore monetario rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia: i) memorizzato su un dispositivo elettronico; ii) emesso dietro ricezione di fondi il cui valore non sia inferiore al valore monetario emesso; iii) accettato come mezzo di pagamento da imprese diverse dall’emittente.
La direttiva 2009/110/CE 12, che abroga la 2000/46, all’art.2 comma I n.2) contiene una nuova definizione di moneta elettronica, che viene qualificata come:
il valore monetario memorizzato elettronicamente, ivi inclusa la memo- rizzazione magnetica, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia emesso dietro ricevimento di fondi per effettuare operazioni di pagamento ai sensi dell’articolo 4, punto 5), della direttiva 2007/64/CE e che sia accettato da persone fisiche o giuridiche diverse dall’emittente di moneta elettronica.
Benché il testo possa sembrare sostanzialmente identico al precedente, fra le due versioni ci sono alcune differenze importanti. Mentre nella definizione della direttiva abrogata la moneta elettronica poteva essere accettata solo da imprese, nella direttiva del 2009 la nozione di «impresa» viene sostituita con quelle di «persona fisica» e «persona giuridica» 13
Con tutti i limiti accennati rispetto all’assenza di valore intrinseco della moneta legale e alla natura psicologica e convenzionale della disponibilità a riconoscere bancone e monete come espressione di un valore economico, la lettura delle norme comunitarie evidenzia una differenza sostanziale fra la mo- neta legale e quella elettronica. Mentre la moneta legale consiste in banconote e monete ed ha un valore in quanto tale, quella elettronica non è (e non ha) un valore in sé, perché deve essere garantita da ? o corrispondere a ? fondi ricevuti dall’emittente. In altri termini, la moneta elettronica deve poter uscire in qualsiasi momento dal circuito dematerializzato e consentire a chi la detiene di entrare in possesso di «moneta sonante». Più che «moneta elettronica», dunque, si dovrebbe parlare di strumenti per il trasferimento elettronico di fondi, a prescindere dalla causa del trasferimento stesso, che afferisce solo alla volontà contrattuale delle parti coinvolte nella transazione.
Alla luce di quanto sopra, quindi, è abbastanza difficile qualificare una criptovaluta come «moneta elettronica» secondo la definizione della normativa vigente, dal momento che alla criptovaluta viene attribuito un valore sì convenzionale, ma intrinseco e non garantito dall’esistenza di riserve, ancorché parziali, come invece richiede il predetto art. 2, comma I, n.2, della direttiva 2009/110.
Anche la Banca Centrale Europea (BCE) arriva a questa conclusione, ma attraverso delle spiegazioni che, a una più attenta lettura, rivelano molto di più di quanto potrebbe sembrare sulla posizione politica delle istituzioni comunitarie in relazione alla diffusione di Bitcoin e simili.
Perché secondo la BCE una criptovaluta non è qualificabile come moneta (elettronica)?
Nella sezione «Explainers» 14 ]del suo sito internet ufficiale si legge:
Bitcoin non è emesso da una autorità pubblica centrale […] non è generalmente accettato come strumento di pagamento […] gli utenti non sono protetti, e gli hacker possono rubare i bitcoin. E se questo accade non si ha protezione giuridica […] è troppo volatile. Una moneta dovrebbe essere un affidabile strumento di conservazione del valore in modo da essere sicuri che la moneta che si possiede possa consentire di acquistare più o meno la stessa quantità di cose oggi e fra un anno.
Alla domanda «se non è una moneta, allora cos’è?» la BCE risponde:
Bitcoin è un bene speculativo. In altri termini, è qualcosa su cui scommettere per guadagnare, ma al rischio di perdere l’intero investimento.
Tuttavia, le tesi della BCE, in realtà, non valgono necessariamente per le criptovalute, e sono ampiamente valide anche per le valute legali.
Innanzi tutto, la BCE tralascia la differenza nella definizione normativa di moneta legale rispetto a quella di moneta elettronica. È vero che una criptovaluta non è emessa da una banca centrale, ma nemmeno la moneta elettronica definita secondo la normativa comunitaria lo è. Quindi, questa non può essere una differenza rilevante.
L’argomento secondo il quale l’utente non è protetto dal furto di criptovalute vale per qualsiasi bene ? materiale o immateriale ? dotato di valore economico. Non c’è una protezione legale dal furto di banconote, che obbliga una banca a restituire le somme, quando il reato avviene al di fuori del perimetro di responsabilità della banca stessa. Quindi, se un soggetto subisce un furto in casa, poco rileva che l’oggetto materiale del reato sia cartamoneta o un insieme di bit trafugati dal suo wallet.
Quanto alla volatilità delle criptovalute, senza voler ricordare i tempi dell’inflazione galoppante dell’«Italia da bere», basta guardarsi intorno, per esempio in America Latina con il caso dei Tango Bond, l’inflazione galoppante in Venezuela, oppure la crisi finanziaria innescata dai muti subprime ? di cui il crack del colosso Lehman Brothers è il simbolo negativo ? per rendersi conto di un fatto evidente: non necessariamente una moneta emessa da un’autorità centrale, ancorché generalmente accettata come strumento di pagamento ? o altri titoli sempre più rarefatti e solo regolati formalmente in modo da consentire una tutela legale a chi li utilizza ? è, per ciò solo, in grado di conservare nel corso del tempo il valore che esprime.
L’approccio della BCE alle criptovalute, dunque, è basato sul presupposto vero in fatto (non si sa ancora quanto a lungo), ma ? come spiega bene Hayek ? non per questo indiscutibile, della centralità della moneta tradizionale come unico strumento di misura del valore e strumento di estinzione delle obbligazioni, la cui emissione e circolazione è regolata dagli Stati e dai soggetti che gli Stati hanno autorizzato a questo scopo.
Pur in modo comprensibilmente «partigiano» ? anche le monete aventi corso legale sono oggetto e strumento di speculazione ?, la definizione proposta dalla BCE di Bitcoin come bene speculativo coglie l’effettiva natura di quella che, alla luce di quanto sopra, non dovrebbe più essere chiamata «criptovaluta». Siamo piuttosto di fronta a un oggetto immateriale, il cui uso rientra nell’ambito della libertà garantita a ciascuno di scambiare un bene (anche intangibile) con qualsiasi altro, attribuendo al bene in questione un valore convenzionale, lasciando al giudice semplicemente il compito di dichiarare l’adempimento o meno dell’obbligazione assunta da una parte di corrispondere all’altra il valore della controprestazione tramite ? poniamo ? Bitcoin, a prescindere dal valore intrinseco di quest’ultimo.
Come ricorda Hayek 15, già alla fine del 1800 Lord Thomas Farrer scriveva
se le nazioni non avessero fatto altro che definire una unità standard di moneta legale [del valore che hanno adottato] non ci sarebbe alcun bisogno di una legge ad hoc per la valuta legale. Il diritto dei contratti fa tutto ciò che serve senza che una legge debba attribuire funzioni speciali a una particolare forma di valuta. Abbiamo adottato la Sovrana d’oro come unità o standard di valuta. Se prometto di pagare 100 Sovrane non c’è bisogno di nessuna legge speciale sulla moneta legale per stabilire che devo pagare questa somma e che, se sono obbligato al pagamento di cento Sovrane, non posso adempiere all’obbligazione in nessun altro modo 16
Attualizzando il ragionamento, dunque: se una parte accetta ? come metodo di adempimento ? di ricevere Bitcoin in cambio di servizi o prodotti, si pone solo un problema di tipo contrattuale, che non afferisce l’assenza di corso legale del token crittografico, che rappresenta la criptovaluta. In termini stretta mente civilistici, dunque, il fenomeno delle criptovalute non presenta particolari complessità sistematiche essendo pacificamente inquadrabile nell’ambito dei beni immateriali che, altrettanto pacificamente, sono e possono essere oggetto di negoziazioni contrattuali, esecuzione forzata 17 e tutela penalistica (quantomeno ai sensi dell’art. 392 comma III 18 e dell’art. 635 bis 19 c.p.).
4. Esclusione della contrarietà delle transazioni basate su criptovalute all’ordine pubblico (economico)
Le criptovalute sono state oggetto di durissime critiche basate sulla loro capacità di agevolare attività illecite e penalmente rilevanti, che vanno, tanto per citarne alcune, dall’esportazione di capitali, al riciclaggio, all’evasione fiscale, all’alterazione dei mercati finanziari.
Questo, per esempio, è quanto si legge nel rapporto annuale 2013 dell’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia:
Dettagli informativi in merito alla diffusione e ai rischi delle monete virtuali, con particolare riferimento al caso Bitcoin, sono stati recentemente forniti dalla Banca d’Italia nel Rapporto sulla stabilità finanziaria n. 1/2014. La UIF ha in corso approfondimenti sul potenziale di rischio di riciclaggio e finanziamento del terrorismo di tale moneta virtuale, anche in considerazione di alcune segnalazioni di operazioni sospette ricevute con riguardo ad anomale compravendite di Bitcoin, realizzate per mezzo di carte di pagamento o in contante con controparti estere. Le operazioni in Bitcoin, pur registrate in appositi database consultabili in rete, non consentono di identificare i soggetti intervenuti nelle transazioni, facilitando così lo scambio di fondi in forma anonima e l’utilizzo di tale strumento di pagamento nel contesto dell’economia illegale» 20
A ciò fa eco, sempre nel 2014, la dichiarazione dell’allora procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, secondo il quale:
la moneta virtuale utilizzata per transazioni online non offre chiarezza nella tracciabilità e può essere strumento per riciclaggio di denaro, finanziamento del terrorismo e delle mafie e per traffici illeciti […] non vi è garanzia di poter individuare l’identità reale delle persone coinvolte nelle operazioni e, in particolare, del nuovo proprietario, identificato da un codice numerico 21
Queste dichiarazioni pongono un problema serio in termini di contrarietà all’ordine pubblico delle transazioni in criptovaluta (quantomeno economico) 22 e, conseguentemente, in tema di nullità dei contratti che coinvolgono questi beni immateriali.
L’alternativa è chiara: o le criptovalute, per le loro caratteristiche intrinseche, e in particolare per l’inutilità di regolarne l’utilizzo su scala locale, sono uno strumento oggettivamente idoneo ad agevolare attività illecite, e allora si pongono ipso facto fuori dalla legge e i relativi contratti sono nulli. Oppure siamo in presenza di una mera potenzialità che, però, allora, non può dare corso alla nullità del contratto, perché ciò significherebbe dover estendere il ragionamento a qualsiasi strumento di pagamento ? moneta legale inclusa ? che astrattamente risulta utilizzabile nell’ambito di azioni criminali.
L’anonimato delle transazioni, come emerge dal citato rapporto UFI- Bankitalia, è il bersaglio sul quale convergono le critiche mosse alle criptovalute. In questa caratteristica viene individuata l’idoneità delle criptovalute a supportare attività destabilizzanti dell’ordine pubblico, tali per cui si avanza la richiesta di metterle del tutto fuorilegge, come ha chiaramente auspicato il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz:
Bitcoin ha successo esclusivamente per via della capacità di aggirare i controlli e per la mancanza degli stessi […] per questo ritengo che dovrebbe essere dichiarato fuori legge. Non assolve ad alcuna funzione socialmente utile» 23
Il ragionamento di Stiglitz è curiosamente simile a quello che l’industria discografica americana utilizzò, fra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei duemila, per trascinare in giudizio Napster, l’azienda ? o meglio, il software ? che utilizzando un protocollo peer-to-peer rese possibile la condivisione online di file in formato MP3.
La tesi sostenuta in primo grado dalla Corte distrettuale del 9th Circuit configurava una responsabilità di Napster sul presupposto che essa non poteva non sapere che la sua tecnologia fosse suscettibile di utilizzi illeciti, specie per via di precise scelte di progettazione del software dirette ad evitare l’identificazione degli utenti:
Plaintiffs present convincing evidence that Napster executives actually knew about and sought to protect use of the service to transfer illegal MP3 files. For example, a document authored by co-founder Sean Parker mentions the need to remain ignorant of users’ real names and IP addresses «since they are exchanging pirated music». […] The same document states that, in bargaining with the RIAA, defendant will benefit from the fact that «we are not just ma- king pirated music available but also pushing demand». […] These admissions suggest that facilitating the unauthorized exchange of copyrighted music was a central part of Napster, Inc.’s business strategy from the inception. […] Nap- ster, Inc. supplies the proprietary software, search engine, servers, and means of establishing a connection between users’ computers. Without the support services defendant provides, Napster users could not find and download the music they want with the ease of which defendant boasts 24
L’analogia con le critiche mosse alla criptovalute è evidente. Se la tecnologia blockchain è originariamente sviluppata per l’anonimato by default, l’anonimato by default è funzionale a consentire azioni illecite, con eventuale profitto di chi questa tecnologia mette a disposizione degli utenti, e la mag- gioranza degli utenti utilizza la tecnologia blockchain per transazioni illecite, allora la tecnologia in questione è intrinsecamente illegale, anche se suscettibile di usi ammessi. Applicando questo principio, dunque, si dovrebbe concludere che la tecnologia blockchain è illegale «a prescindere», con la conseguenza che prevedere l’adempimento di un’obbligazione tramite pagamento in criptovaluta renderebbe nullo il contratto.
Nella sentenza di appello nel caso Napster, il Collegio ritenne di correggere il criterio del primo giudice, che era basato soltanto sull’analisi quantitativa del rapporto fra usi illeciti e usi leciti concretamente rilevati sulla piattaforma peer-to-peer, ribadendo il principio secondo il quale la mera messa a disposizione di mezzi per commettere una violazione non conduce di per sé all’imputazione di una responsabilità giuridica:
We are bound to follow Sony and will not impute the requisite level of knowledge to Napster merely because peer-to-peer file sharing technology may be used to infringe plaintiffs’ copyrights. See 464 U.S. at 436 (rejecting argument that merely supplying the «”means” to accomplish an infringing activity» leads to imposition of liability). We depart from the reasoning of the district court that Napster failed to demonstrate that its system is capable of commercially significant non-infringing uses. […] The district court improperly confined the use analysis to current uses, ignoring the system’s capabilities. […] Consequently, the district court placed undue weight on the proportion of current infringing use as compared to current and future non-infringing use) 25
Ciò non toglie, tuttavia, che l’idea di una «illiceità intrinseca» di una tecnologia ? tesi che, di tanto in tanto, riemerge non solo come tema filosofico ? si scorge anche fra le righe di questa sentenza e rinforza il processo di de- responsabilizzazione individuale in corso da tempo. Il mantra rimane sempre lo stesso, la «colpa» è di una macchina, di un costrutto logico o di un’entità inanimata, per cui c’è poco da fare: scienza e tecnologia sono demoni che non riusciamo a controllare e che ci distruggeranno. Al di là delle riflessioni di sistema che si possono elaborare su questo tema, sta di fatto che, anche aderendo alla tesi della possibilità di configurare una «illiceità intrinseca» di una tecnologia con conseguente, automatica, contrarietà all’ordine pubblico dei rapporti costruiti su di essa, in punto di fatto la tecnologia blockchain non rientra nella categoria, perché non è vero che consente un anonimato totale. Uno studio pubblicato dal Politecnico di Milano, intitolato Bitiodine: Extracting intelligence from the bitcoin network, ha dimostrato che le transazioni Bitcoin non sono totalmente e sistematicamente anonime. Adottando opportuni strumenti, è possibile ricavare dai registri delle transazioni un gran numero di informazioni sull’identità di un soggetto fino a collegarne l’attività a fatti specifici, di interesse investigativo:
the complete history of all transactions ever performed, called «blockchain», is public and replicated on each node. The data it contains is difficult to analyze manually, but can yield a high number of relevant information. In this paper we present a modular framework, BitIodine, which parses the blockchain, clusters addresses that are likely to belong to a same user or group of users, classifies such users and labels them, and finally visualizes complex information ex- tracted from the Bitcoin network. BitIodine labels users (semi-)automatically with information on their identity and actions, which is automatically scraped from openly available information sources 26
Analogamente, nell’ambito della computer forensics, sono già state sviluppate delle tecniche per tracciare e localizzare l’utilizzo di criptovalute da parte di un individuo sospetto, che vanno dal tracciamento del numero IP utilizzato nelle transazioni, alla ricostruzione del collegamento a un service provider che opera come cambiavalute 27
Venuto meno il presupposto dell’anonimato assoluto quale elemento fondante l’asserita pericolosità intrinseca della tecnologia blockchain, è allora pos- sibile escludere la sua illiceità intrinseca nell’ambito dei rapporti fra privati; nello stesso modo in cui il denaro contante è oggetto materiale di reati di riciclaggio, non per questo è di per sé pericoloso, né pone fuorilegge tutte le transazioni che lo coinvolgono. Tuttavia, e questo è un punto effettivamente critico nell’ambito della gestione delle criptovalute, mentre sulla circolazione del contante è possibile intervenire con strumenti normativi e controlli a vario livello pubblico, la stessa cosa non può dirsi per Bitcoin e simili strumenti.
Innanzi tutto, una regolamentazione di qualsiasi tipo su base nazionale, anche solo diretta a consentire lo pseudonimato delle transazioni, vietando però l’anonimato, sarebbe sostanzialmente inefficace. Nelle operazioni «estero su estero» compiute tramite indirizzi blockchain la rivelazione dell’identità dell’utente (come abbiamo visto, non impossibile) implicherebbe comunque la necessità del passaggio dagli accordi di cooperazione giudiziaria internazionale (se presenti), non avendo l’autorità nazionale giurisdizione diretta su quanto accaduto in un altro Paese.
In secondo luogo, l’assenza di meccanismi di segnalazione di operazioni sospette o di monitoraggio rende possibili transazioni delle quali le autorità competenti potrebbero accorgersi solo ex-post e magari dopo un intervallo di tempo tanto lungo da vanificare qualsiasi ulteriore attività di controllo o di indagine.
Per quanto concretamente rilevanti, tuttavia, questi aspetti attengono alla fase di enforcement e non agli aspetti sostanziali della sussumibilità all’interno del sistema di queste nuove forme di gestione della creazione e trasmissione di valore.
5. Conclusioni
Il dibattito sulle criptovalute è condizionato dal pregiudizio culturale secondo cui l’aspetto tecnologico assume una posizione preminente rispetto all’analisi giuridica, che deve sistematicamente professarsi inadatta a comprendere i «nuovi» fenomeni. In realtà questo non è corretto e difficilmente ? se escludiamo i traguardi raggiunti dalla genetica ? l’evoluzione delle tecnologie dell’informazione pone al giurista problemi concettualmente ignoti, le criptovalute non sfuggono a questa constatazione.
Le lettere di cambio risalgono al XII secolo e lo Hawala ? l’equivalente arabo ? addirittura al VIII secolo. Entrambi assolvevano una funzione del tutto analoga a quella svolta dalle criptovalute: trasferire valore senza necessariamente spostare moneta. E nel momento in cui titoli, derivati e altri oggetti di ingegneria finanziaria, hanno assunto un valore autonomo, svincolato da qualsiasi aggancio con riserve o valute, è stato evidente che il «Re era nudo», e la moneta legale, morta. Anzi, tenuta artificialmente in vita in un sistema che, grazie alla dematerializzazione dell’informazione e del valore, non ha più bisogno di orpelli fisici per definire e spostare la ricchezza.
Il vero, unico problema delle criptovalute, allora, non è giuridico, bensì politico e si riferisce alla perdita di controllo dello Stato sul valore e la ricchezza.
Cioè, in definitiva, su uno strumento di controllo sociale.
- I fondamenti teorici della crittografia asimmetrica – o crittografia a chiave pubblica – sono stati formalizzati in Diffie, W. e Hellman, M. New Directions in Cryptography in IEEE Tran- sactions on Information Theory, IT-22(6):644–654, Nov. 1976. ↩
- Sugli aspetti tecnici della firma digitale vedi Katz, J. Digital Signatures, Berlino 2010, ISBN- 13 978-1489998811. ↩
- Chaum, D. Achieving Electronic Privacy in Scientific American, agosto 1992, p. 96-101 e Chaum, D. Blind signatures for untraceable payments in Advances in Cryptology Proceedings of Crypto 82 (3): 199–203, 1998 Springer ↩
- Nell’uso della parola blockchain bisogna distinguere tre significati. Il primo è quello che identifica l’originario registro distribuito dei Bitcoin. Il secondo – espresso dal nome accompagnato dall’articolo indeterminativo, e dunque «un blockchain» – è utilizzato per tutti quei registri che utilizzano lo stesso concatenamento di blocchi dei Bitcoin. Il terzo, espresso dalla locuzione «tecnologia blockchain» si riferisce al settore in generale. Vedi Casey, M.J., Vigna, P. The Truth Machine: The Blockchain and the Future of Everything ISBN-13 978- 1250114570 New York 2018, p. XI. ↩
- Casey, M.J., Vigna, P. op. cit. p. 8. ↩
- Gli Smart Contract (al di là del nome che dà adito a qualche confusione) sono dei software che – operando in modo distribuito su una piattaforma Ethereum – possono essere usati per la gestione delle fasi dell’adempimento di un accordo. Più che contratti nel senso proprio del termine, dunque, sono strumenti per la misura automatica dell’(in)adempimento a un contratto propriamente detto. ↩
- Bodin, J. Les six livres de la Republique Libro I capitolo X p. 155, Lione, 1578 – traduzione di A. Monti, inedita, ↩
- Ingham, G. Nature of Money: New Directions in Political Economy, Cambridge (UK) 2004, ISBN-13 978-0745609973. Edizione italiana, La natura della moneta con traduzione di F. Saulini, Roma, 2016 ISBN-13 978-8876256745. ↩
- Hayek, F.A. Denationalisation of Money – The Argument Refined III edizione, Londra 1990, ISBN 0255362390, p. 38. Traduzione di A. Monti, inedita. In Italia l’esperimento più recente che ha coinvolto l’emissione di una private currency è quello promosso nel 2000 dal professor Giacinto Auriti con la messa in circolazione del «Simec». L’esperimento durò circa un anno e fu interrotto a seguito del sequestro delle monete disposto dalla Procura della Repubblica di Chieti. ↩
- Hayek, F.A. op. cit. ibidem. ↩
-
Direttiva 2000/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 settembre 2000 riguardante l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica recepita in Italia con l’art. 55, comma 1, lett. c), L. 1° marzo 2002, n. 39 (Legge comunitaria 2001) e traslata – per quanto riguarda l’Italia – nel Titolo V bis del Testo unico bancario. ↩
- Direttiva 2009/110/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 settembre 2009 concernente l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica, che modifica le direttive 2005/60/CE e 2006/48/CE e che abroga la direttiva 2000/46/CE. ↩
- Ci sarebbe anche da interrogarsi – ma non è questa la sede – sulla differenza fra la «memorizzazione del credito su dispositivo elettronico» di cui all’art. 1 comma 3 lett. b) della direttiva 2000/46 e il «valore monetario memorizzato elettronicamente… rappresentanto da un credito nei confronti dell’emittente» di cui all’art.2, comma I, n.2) della direttiva 2009/110. ↩
- What is bitcoin? ↩
- Hayek, F.A. op.cit. p. 39. ↩
- Farrer, T. H. Studies in Currency. Or, Inquires Into Certain Modern Problems Connected With the Standard of Value and the Media of Exchange I edizione, London, 1898. Traduzione di A. Monti, inedita. ↩
- Nell’indagine del 2013 che ha portato all’arresto di Ross Williamo Ulbricht, sospettato di essere il creatore e il gestore del mercato nero «Silk Road», la Druge Enforcement Agency (DEA) statunitense ha sequestrato centinaia di migliaia di Bitcoin trasferendoli su due indirizzi controllati dagli investigatori. Al di là del fatto che la misura cautelare sia stata eseguita in un’altra giuridisdizione e nell’ambito di una indagine penale, rimane il fatto che, tecnicamente, una criptovaluta è suscettibile di essere sottoposta a una misura cautelare ablativa come il sequestro. Il sequestro di una criptovaluta presenta delle criticità da affrontare nella fase immediatamente successiva alla sua apprensione. In particolare, si pone il problema della scelta di convertire la criptovaluta sequestrata in moneta avente corso legale o meno. Sul punto, vedi ampiamente Furneaux, N. Investigating Cryptocurrencies Hoboken (USA), 2018 ASIN B07D1D6WBL, p. 255. ↩
- «Si ha altresì, violenza sulle cose allorché un programma informatico viene alterato, modificato o cancellato in tutto o in parte ovvero viene impedito o turbato il funzionamento di un sistema informatico o telematico». ↩
- Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque distrugge, deteriora, cancella, altera o sopprime informazioni, dati o programmi informatici altrui è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Se il fatto è commesso con violenza alla persona o con minaccia ovvero con abuso della qualità di operatore del sistema, la pena è della reclusione da uno a quattro anni. ↩ - Banca d’Italia – Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia Rapporto annuale 2013 Roma, maggio 2014, p. 35. ↩
- Il pg di Roma Ciampoli: da bitcoin rischi riciclaggio e terrorismo in IlSole24Ore del 9 luglio 2014. ↩
- Sul tema vedi Di Plinio, G. Il common core della deregulation. Dallo Stato regolatore alla costituzione economica sovranazionale Milano, 2005 ISBN-13: 978-8814115189. ↩
- Costelloe, K. Bitcoin ‘Ought to Be Outlawed,’ Nobel Prize Winner Stiglitz Says in Bloomberg Technology del 29 novembre 2017. ↩
- A & M Records, Inc. v. Napster, Inc., 114 F. Supp. 2d 896 ↩
- A&M Records, Inc.v. Napster, Inc. – 239 F.3d 1004 (9th Cir. 2001), p. 57. ↩
- Spagnuolo, M., Maggi, F., Zanero, S., Bitiodine: Extracting intelligence from the bitcoin network in International Conference on Financial Cryptography and Data Security, Berlino, 2014, pp. 457-468 ↩
- Furneaux, N., op.cit., p. 213. ↩
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