La polemica sui limiti del segreto professionale dei giornalisti riaccesa dal dibattito in sede europea sul futuro provvedimento in materia di libertà di stampa contrappone chi vuole i giornalisti assolutamente “liberi di indagare” e chi, invece, ritiene che questa libertà non possa essere assoluta o comunque non possa essere esercitata al punto da compromettere la sicurezza nazionale di Andrea Monti – inizialmente pubblicato su Strategikon – Italian Tech La Repubblica
La polemica sui limiti del segreto professionale dei giornalisti riaccesa dal dibattito in sede europea sul futuro provvedimento in materia di libertà di stampa contrappone chi vuole i giornalisti assolutamente “liberi di indagare” e chi, invece, ritiene che questa libertà non possa essere assoluta o comunque non possa essere esercitata al punto da compromettere la sicurezza nazionale.
Questo dibattito, almeno per quanto riguarda l’Italia, è stato in parte già condotto in relazione ai processi penali, perché il bilanciamento fra il diritto a proteggere le fonti informative del giornalista e quello dello Stato di conoscerne l’identità è già regolato, fin dal 1989, con l’articolo 200 del Codice di procedura penale.
In sintesi, il giornalista professionista ha diritto a proteggere le proprie fonti, ma se un giudice ritiene che i fatti riferiti siano accertabili solo interrogando direttamente chi ne è stato testimone, allora il giornalista deve rivelare la fonte. Se, poi, è un giornalista-pubblicista, allora non c’è alcuna possibilità di opporre il segreto (come accade per “blogger”, “content creator” o per chi si fregia di una delle tante fantasiose etichette che caratterizzano il settore dell’informazione online).
La doppia relatività del segreto professionale giornalistico è il presupposto per analizzare la questione connessa dell’intercettabilità delle comunicazioni fra un giornalista (professionista) e una sua fonte.
Se il segreto professionale non è assoluto, il giornalista può essere senz’altro intercettato per ordine di un giudice, nelle forme previste dalla legge. Questo è ancora più vero se si considera che persino gli avvocati difensori possono essere intercettati quando comunicano con le persone che difendono. È vero, infatti, che l’articolo 103 del Codice di procedura penale vieta di fare una cosa del genere, ma nello stesso articolo c’è scritto che se il divieto viene violato, l’unica conseguenza è che delle conversazioni intercettate non si può fare uso nel processo. È una disciplina abbastanza ipocrita perché in un’indagine penale non conta soltanto quello che si può documentare formalmente, ma quello che si riesce a sapere effettivamente. In altri termini: se, per esempio, dall’intercettazione vietata di una comunicazione fra avvocato e cliente il pubblico ministero capisce la strategia difensiva, potrà organizzare quella accusatoria in modo molto più efficiente, pur non potendo mettere “nero su bianco” il contenuto dell’intercettazione. Quindi, la legge è formalmente rispettata, ma nella sostanza è messa da parte.
Tornando alla questione dell’intercettabilità dei giornalisti, se nemmeno il diritto di difesa è un argine contro la pratica delle intercettazioni è difficile pensare che la libertà di stampa possa essere più tutelata di quella personale. Come per altri ambiti —sorveglianza elettronica, riconoscimento facciale biometrico ecc. — la soluzione non può essere un divieto o un’autorizzazione generalizzata ma il controllo caso per caso da parte del giudice. La “giurisdizionalizzazione” delle attività di prevenzione criminale e di indagine penale non sarà una soluzione perfetta, ma è la migliore che c’è perché affida a un soggetto terzo e autonomo il compito di valutare se l’esercizio di un grande potere (quello di violare la privatezza di una comunicazione) sia stato esercitato con la grande responsabilità che un atto del genere richiede.
Dopo aver stabilito che il segreto professionale del giornalista non è assoluto e che pure il giornalista può essere intercettato nell’ambito di un’indagine penale, possiamo ora analizzare la questione in rapporto alle esigenze di “sicurezza nazionale” che animano il dibattito europeo.
Innanzi tutto, va detto che l’Unione Europea non dovrebbe occuparsi dell’argomento perché secondo l’articolo 4 del Trattato UE la sicurezza nazionale è materia riservata agli Stati membri. Normare questo aspetto in un atto comunitario nonostante il divieto espresso del Trattato sarebbe una vittoria di Pirro perché inevitabilmente questo “eccesso di potere” finirebbe per alimentare contenziosi infinti che potrebbero arrivare fino alla Corte costituzionale e dare un fortissimo scossone all’impalcatura del diritto comunitario o, come si ama chiamarlo da qualche tempo, unionale.
Nel merito, poco importa che le esigenze di sicurezza nazionale siano regolate a Bruxelles o a Roma, perché la questione di fondo, che è anche il convitato di pietra, è proprio la giurisdizionalizzazione di questa categoria politica. Detta in altri termini, la questione da porsi è se, e sì con quale limite, anche le esigenze di sicurezza nazionale debbano essere sottoposte al controllo di un giudice; ma senza una definizione precisa di cosa sia la sicurezza nazionale, questo non è possibile perché significherebbe attribuire alla magistratura un potere eccessivamente ampio di determinare —e dunque di limitare— il dovere dell’esecutivo di garantire l’esercizio del potere di alta direzione delle azioni a tutela della sicurezza dello Stato.
La risposta alla domanda, pur in modo incoerente e problematico, è già in parte arrivata con la riforma delle operazioni sotto copertura, anche se la sede nella quale risolvere il dilemma non può essere, come detto, un regolamento comunitario quanto piuttosto la riforma della legge 124/07 quella che, appunto, si occupa dell’argomento.
Una definizione giuridicamente chiara di sicurezza nazionale ne limiterebbe l’invocazione strumentale (la talismanica frase “sicurezza nazionale” —scriveva già nel 1989 Alan Dershowitz in The Best Defense—è spesso invocata come palese copertura di convenienze, vantaggi politici o imbarazzi istituzionali), o poco rigorosa, come è accaduto nel recente passato.
Fatta questa premessa, è evidente che se il segreto professionale del giornalista non è assoluto e il giornalista può essere intercettato nell’ambito di un’indagine giudiziaria, a maggior ragione questo dovrebbe essere possibile se il caso riguarda la sicurezza dello Stato. Se questo è vero, allora il punto diventa —come già nel caso del procedimento penale— definire limiti, modalità dell’esercizio di questo superpotere, ma soprattutto efficaci strumenti per la tutelare gli operatori dell’informazione dai sempre possibili abusi.
Passando dall’astrattezza del teoria giuridica alla concretezza della realtà giornalistica, quale che sia la soluzione adottata a livello normativo è ipotizzabile che il problema della tutela delle fonti sia risolto in termini pragmatici mettendosi nelle condizioni di non conoscerne l’identità, adottando una serie di accorgimenti operativi e tecnologici —cioè facendo ampio uso di tecniche di anonimizzazione e di cifratura delle conversazioni— che vanificherebbero o renderebbero molto più difficile l’attività di intercettazione. Ad oggi, questi metodi sono già largamente disponibili —basta pensare alle piattaforme per gestire i leak o a Signal— ma l’Unione Europea sta da tempo pensando di limitarne l’utilizzo anche se in ambiti determinati e non connessi all’attività giornalistica. È pur vero, tuttavia, che una volta stabilito un principio, estenderne l’applicazione anche oltre non sarebbe impossibile.
Ad avere l’ultima parola, tuttavia, non saranno né gli Stati né le loro aggregazioni a-nazionali perché oramai da tempo il diritto di decidere cosa sia diritto e come debba essere garantito è nelle mani di Big Tech.
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