Un ragazzo indonesiano è recentemente diventato milionario creando dei NFT con degli autoscatti. Non è una popstar, un influencer, uno sportivo ma una persona comune. Ciononostante, è riuscito a guadagnare circa un milione di dollari con fotografie del tutto banali, difficilmente comparabili con i ritratti scattati da Annie Leibovitz di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
La notizia è facilmente inquadrabile nella narrativa sulla “rivoluzione digitale”, sull’importanza delle “nuove tecnologie” e sul “chi si ferma è perduto”. Rinforza la percezione che sia facile fare soldi facili con blockchain e i suoi derivati, ma solo se sai come fare (e c’è qualcuno pronto a spiegartelo, pagando s’intende). Rappresenta l’ennesimo “caso di successo” che, come in una previsione autoavverante, convincerà individui, imprese ed istituzioni a “investire” in queste tecnologie che rappresentano il “futuro”.
Serve a poco notare che il milione non è veramente di dollari americani ma di Ethereum e che gli Ethereum, come ogni criptovaluta, valgono solo se qualcuno è disposto ad accettarli. È inutile chiedersi se, dovendo tirare fuori soldi “veri” gli utenti avrebbero ugualmente reso ricco il fortunato autoscattista. Così come non ha molto senso domandarsi cosa avessero di speciale questi selfie da diventare un oggetto economicamente valutabile (per il quale, in altri termini, qualcuno è disposto a spendere soldi). A queste domande, semplicemente, non c’è risposta.
La storia dello sfruttamento economico dell’internet è piena di fallimenti e successi apparentemente inspiegabili e di analisi basate su logiche ferree ma che, alla prova dei fatti, sono state contraddette da comportamenti individuali e collettivi meritevoli di finire nel libro di Carlo Cipolla (quello sulla stupidità, non quello su vele e cannoni) ma ciononostante prevalenti.
In realtà, dunque, non c’è niente di più vecchio e consolidato dell’irrazionalità che caratterizza le bolle speculative (anche) tecnologiche, gonfiate dall’atteggiamento spregiudicato non solo dei colossi del settore, ma anche di chi non lo è ma vorrebbe diventarlo.
Giancarlo Livraghi, protagonista indiscusso dell’advertising internazionale e uno dei padri nobili dell’internet italiana, già nel 2000 scriveva: Se qualcuno vede tendenze chiare e ordinate in quello che sta succedendo, alzi la mano. Per quanto riesco a capire, la confusione sta aumentando. C’è sempre più consenso (in teoria) sull’importanza di un’attenta e graduale gestione delle relazioni. Ma sembra dominare (in pratica) un’attività frenetica e frettolosa, in cui spesso si mescolano “avvenirismi” confusi con concezioni paleolitiche del marketing. Sapevamo che il sistema è turbolento e imprevedibile, che non saremmo arrivati a prospettive coerenti se non attraverso ogni sorta di sobbalzi e di false partenze. Ma, quando dalle parole si passa ai fatti, “toccare con mano” il disordine può essere sconcertante.
Era il periodo dei siti in Html 4 fatti da webmaster centromeridionali e rivenduti da rutilanti “webagency” del Nord a somme esorbitanti, delle startup con uffici nelle zone della “Milano che conta” dove ragazzi quasi imberbi si atteggiavano a improbabili uomini d’affari, di autonominati “guru” di varia provenienza culturale ma accomunati dall’essere, fino a quel momento, disoccupati. L’importante non era produrre qualcosa ma “generare movimento” anche se non si andava da nessuna parte. Se una fabbrica di bulloni (attività tutt’altro che semplice) avesse applicato queste logiche sarebbe fallita in un batter d’occhio.
Sono passati anni, ma l’oramai vecchio e noioso boom delle “piattaforme” e, ora, la diffusa isteria sui NFT dimostrano ancora una volta corretto l’assunto —già chiaro ai tempi— che nei servizi digitali il modello di business è nomadico e predatorio. L’assenza di costi di impianto comparabili a quelli necessari per progettare, costruire fabbriche e macchinari, la disponibilità ubiqua di potenza di calcolo e storage, banda sempre più larga ma piena di niente accelerano la possibilità di buttare sul mercato qualsiasi cosa, vedere che succede e se va male riprovarci con qualcos’altro. Ma intanto si lasciano vittime sulle strade nel senso di speculazioni andate male, soldi sprecati e occasioni perdute. È il capitalismo, bellezza?
Forse si, ma è curioso, a questo proposito, che il recente ritorno di fiamma (o di moda) della responsabilità collettiva non abbia indotto le persone a domandarsi dove sia l’etica del creare speculazioni come i Nft “solo perchè si può” senza preoccuparsi del loro impatto sulla vita di ciascuno di noi. E, prevenendo l’eccezione, questo non è un ragionamento da “boomer”. O, meglio, lo è se “essere boomer” significa rifiutarsi di inseguire in modo acritico qualsiasi gadget il marketing dell’Ict scarica sul mercato, lasciando ad altri che non possono avere una storia il privilegio di sentirsi “moderni”.
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