di Andrea Monti – PC Professionale n. 92
Una proposta di direttiva presentata lo scorso novembre dal Commissario europeo Mario Monti affronta lo spinoso tema delle regole per il commercio elettronico.
I problemi da affrontare sono arcinoti, come quello del ruolo e responsabilità dell’Internet Provider. È infatti dal “lontano” 1994, da quando vennero sequestrate centinaia di BBS nel corso dell’Italian Crackdown, che ci si interroga sulla possibilità di responsabilizzare il gestore di un sistema telematico per i contenuti veicolati. Al solito, le truppe sono schierate su due fronti opposti: chi sostiene l’assoluta impossibilità di accusarlo di alcunché e chi invece vuole automaticamente responsabile l’amministratore di un sistema telematico per tutto ciò che vi accade.
Se all’epoca dei BBS, quando nessuno poteva nemmeno concepire l’esistenza dell’e-business, le questioni riguardavano essenzialmente fatti illeciti relativi alla duplicazione abusiva di software, alla possibile violazione della corrispondenza e alla veicolazione di informazioni illecite, con l’avvento dell’internet “.com” lo spettro delle questioni si è sensibilmente ampliato.
In linea di principio la questione è chiara: se la responsabilità penale è personale allora il provider non può essere accusato di nulla se non si dimostra un suo coinvolgimento diretto e volontario o (nel caso dei reati colposi) una sua negligenza o inosservanza delle regole. Dal punto di vista del diritto civile, invece, chiunque cagiona un danno ingiusto è tenuto al risarcimento del danno.
Le cose si complicano quando si passa agli aspetti pratici. Immaginate di acquistare qualcosa tramite la Rete. Da un punto di vista giuridico il rapporto che si costituisce lega soltanto il cliente e il venditore, mentre rimarrebbe irrilevante il ruolo dei provider che – da un lato – ospitano il negozio del venditore e – dall’altro – offrono connettività e servizi al cliente.
Ne consegue che se qualcosa va storto (il vostro provider perde la posta con la fattura e gli estremi dell’ordine, il listino on-line del venditore è sbagliato perché qualcuno ha maliziosamente cambiato le pagine) sarà abbastanza complicato coinvolgere anche gli “intermediari tecnologici” di questa compravendita elettronica. D’altra parte è evidente che se un provider si offre come intermediario per accedere a servizi on-line dovrebbe offrire tutta una serie di garanzie a seconda della tipologia dell’utente.
In altri termini: se uso la posta elettronica soltanto per chiacchierare con gli amici o per ricevere informazioni sui problemi di coppia della mantide religiosa, posso dare un valore relativamente basso al fatto che la mia corrispondenza venga protetta da occhi indiscreti. Se invece lo stesso mezzo mi serve per lavorare, allora il provider dovrebbe darmi delle garanzie in più: ad esempio continuità del servizio, riservatezza, sicurezza del sistema, certificazione del traffico (il tutto, ovviamente e giustamente, anche a prezzo maggiorato).
D’altra parte, provate a fare commercio elettronico senza la possibilità di dimostrare cosa avete acquistato, a quale prezzo, quando e con quali modalità di pagamento e consegna… la cosa incredibile è che nella vita reale le cose vanno effettivamente così: molto spesso dopo aver acquistato qualcosa, non vi rimane che un messaggio di e-mail e la speranza che non vi abbiano “mollato il pacco”; la cosa ancora più incredibile è che – mediamente – il sistema funziona. Miracoli virtuali?
Immagino – a questo punto – le possibili reazioni di qualcuno: offrire questo tipo di valore aggiunto sarebbe troppo costoso, l’utente deve proteggersi da solo, il provider è solo un “trasportatore di pacchetti” quindi non gli si può rimproverare nulla… Ovviamente con questo non intendo dire che i fornitori di servizi siano – in generale – scorretti o poco attenti alle necessità degli utenti, ma soltanto che esistono alcuni punti fondamentali che per una migliore tutela del mercato sarebbe necessario tenere presenti.
Una situazione del genere non poteva rimanere a lungo ignorata dall’Unione Europea che appunto si è pronunciata con un documento che cerca di mettere un po’ d’ordine in questa delicata materia facendo giustizia – almeno si spera – di molte interpretazioni fantasiose sull’annoso problema delle responsabilità.
In sintesi, i punti cardine della proposta di direttiva sono:
- promozione dei famosi “codici di autodisciplina” dei fornitori, su cui tanto si è detto (e poco si è fatto) dalle nostre parti
- divieto per gli Stati di subordinare l’esercizio di attività e-commerce a specifiche autorizzazioni o licenze
- responsabilità giuridica del provider che funge da intermediario per servizi di e-commerce. Tipicamente questo è il caso di chi offre beni o servizi affidando la conduzione tecnica e funzionale (trasmissione, stoccaggio e accesso alle informazioni, si dice nel documento) a terze parti, che non potranno più trincerarsi dietro un laconico “e io che c’entro?”
- assenza di responsabilità per i contenuti “passivi” – i newsgroup, ad esempio – veicolati automaticamente dai server. Affermazione importante che coniuga la tutela dei provider con il rispetto della libertà di espressione di ciascuno
- applicazione della legge del Paese d’origine del venditore alle transazioni on-line, o meglio del luogo dove è situato un insediamento stabile, purchè all’interno di uno Stato membro. Poco importa che fisicamente il web sia localizzato in un altro posto: se l’azienda che offre il servizio è italiana, si applica la nostra legge, punto e basta
- trasparenza nelle offerte commerciali inviate via posta elettronica, con identificazione chiara e certa del proponente. Su questo punto bisognerà capire come fare per essere certi dell’identità del mittente e della genuinità del contenuto, ma a questo dovrebbe pensare la normativa sulla firma digitale
- rimozione dei vincoli al valore legale dei contratti stipulati on line, come la necessità del supporto cartaceo. In realtà si tratta di un’esigenza già teoricamente superata – almeno per noi – ancora grazie alla normativa sulla firma digitale.
- regolamentazione e controllo sulla pubblicità (anche) per i professionisti che in otto paesi su dodici (compreso il nostro) non possono – per espresso divieto legislativo – promuovere i propri servizi.
Via libera definitivo dunque agli studi professionali in rete che non dovranno più indicare sulla propria home-page la semplice dicitura “studio dell’ing. Bullone”. Almeno sulla carta i principi sembrano essere condivisibili, tanto condivisibili che in diversi casi siamo di fronte a soluzioni già contenute nella legge vigente o da questa desumibili; comunque bisognerà vedere quali modifiche verranno proposte; il vero problema si porrà in sede di applicazione concreta e di recepimento, specie in relazione a tempi e modi dello stesso.
Va inoltre sottolineato che in passato alcune prese di posizione comunitarie – ad esempio sul problema dei contenuti illeciti in rete e sul filtraggio dei contenuti – avevano suscitato molte perplessità sullo scenario ipotizzato per gli utenti europei, ma una parola definitiva non è stata ancora scritta, come dimostra l’argomento del quale si parla in questo articolo. Ancora una volta dunque – quando si parla di Rete – il legislatore comunitario si dimostra incerto sulla strada da seguire… stavolta sembra che sia quella giusta, speriamo che continui così.
Possibly Related Posts:
- Così Big Tech ha imparato a monetizzare la nostra fuga dalla realtà
- Il caso Crowdstrike rivela le cyber-debolezze Ue
- Cosa significa il bando cinese di Whatsapp, Telegram e Signal dall’App Store di Apple
- Il duello tra Usa e Cina sui processori va oltre l’autonomia tecnologica
- Quali conseguenze potrebbe avere il possibile bando di TikTok negli Usa