Riassunto delle puntate precedenti.
Scandalizzate dalla scoperta di un crimine efferato – un gigantesco scambio di file musicali on line realizzato tramite un sistema di file sharing – le major della discografia decisero di dare inizio a quella che, secondo loro, doveva rappresentare un esempio per tutti. Un’azione di stampo maoista (ucciderne uno per terrorizzarne diecimila) che però, non traendo alcun utile dal rivalersi sui tantissimi (e non solvibili) adolescenti che usavano Napster, doveva essere diretta contro la società che offriva il servizio di “gestione” degli scambi.
Ottenuto un primo successo, con un provvedimento che decretava la chiusura di Napster, le discografiche hanno visto la vicenda processuale ingarbugliarsi progressivamente.
La Court of Appeals for the Ninth Circuit, infatti ha ridimensionato sensibilmente la decisione del giudice Patel, che in prima istanza aveva tout court deciso per la chiusura di Napster.
Sotto il profilo della responsabilità – rilevano i giudici – il comportamento di Napster può rientrare nei casi di contributory infringement (più o meno “concorso nella violazione”) per avere messo a disposizione un sistema privo delle adeguate funzionalità di monitoraggio dell’utenza, e di vicarious infringement (una sorta di “responsabilità sussidiaria”), sussistente perché non è possibile individuare gli autori materiali delle azioni (dati i limiti strutturali della progettazione del sistema).
Nello stesso tempo, però, i giudici hanno stabilito che il sistema tecnico in sé non è illecito, tanto che può essere utilizzato anche per lo scambio autorizzato di file musicali e che pertanto non è corretto impedirne il funzionamento.
Pertanto, segnalano al giudice Patel di riemettere il provvedimento richiesto dalle case discografiche, modificandolo secondo le indicazioni formulate.
E’ quanto accaduto il 5 marzo scorso, con un sintetico provvedimento di cinque pagine che si può riassumere in questo modo: viene vietata la distribuzione di opere coperte da copyright tramite Napster, ma viene ingiunto alle case discografiche di:
versare una cauzione a favore di Napster;
indicare uno per uno i file che conterrebbero musica coperta da copyright;
provare di esserne i “proprietari” e che questi file siano stati effettivamente scambiati dagli utenti.
In pratica, una vittoria di Pirro per le discografiche, costrette a spendere tempo e denaro per dimostrare di avere il diritto di ottenere il blocco di determinati contenuti.
Al di là degli aspetti giuridici, però, ci sono alcune considerazioni più generali sulle quali riflettere rispetto alla necessità di “cambiare qualcosa” nel modo in cui si intende il diritto della proprietà intellettuale.
Come spesso accade, quando si parla di legge e di rete bisogna partire da un dato tecnico che, nel caso specifico, riguarda il funzionamento di Napster. Contrariamente all’opinione comune, Napster non è una biblioteca di Alessandria della musica, ma “soltanto” un enorme crocevia nel quale si incontrano persone che, letteralmente, passano da quelle parti per caso e che scambiano reciprocamente – senza alcun intervento esterno – dei file dai contenuti non preventivamente controllati.
Una situazione certamente atipica, a fronte della quale i giudici americani sono riusciti comunque ad applicare correttamente le leggi vigenti. “Ma in queste loro decisioni – come ho scritto in un articolo per il quotidiano PuntoCom – c’è una nota stonata. Il coro delle voci di milioni di persone che, decretando il successo di Napster, hanno messo di fatto in discussione il modello tradizionale dello sfruttamento economico del diritto d’autore. Che poco o nulla lascia a chi crea un’opera dell’ingegno, molto esige da chi ne vuole fruire e tutto riversa nelle casse dei “padroni del vapore”.
Il comportamento degli utenti che hanno dimostrato di non ritenere più “praticabile” un “certo modo” di trarre utili economici dal lavoro degli autori dovrebbe far prendere atto che bisogna cambiare qualcosa. E questo qualcosa non è di sicuro – in nome della tutela di una ristretta e potente lobby – condannare penalmente i milioni di persone che hanno ascoltato musica tramite Napster. Rivolgendosi a questa società solo perché non è stato possibile “fare causa”, uno per uno, a tutti gli utenti. O spingere per l’emanazione di leggi inutilmente repressive.
Sarebbe ora , più semplicemente, di cambiare modello di business.”
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