L’azione annunciata il 5 luglio 2022 da Meta-Facebook contro soggetti accusati di data-scraping (la raccolta automatizzata di informazioni pubblicate dagli utenti delle proprie piattaforme) evidenzia un problema reale, l’abuso indiscriminato di informazioni di fatto liberamente disponibili (non solo) sulle piattaforme social. Tuttavia, rinforza le preoccupazioni sull’effettiva “proprietà” di contenuti e dati degli utenti. Sempre di più le persone sono confinate in una gabbia dorata o, a seconda delle prospettive, in una “riserva di pesca”, a esclusiva disposizione esclusiva di chi ha le chiavi della serratura, o il controllo del perimetro al quale accede solo chi ha titolo di Andrea Monti – Inzialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
L’iniziativa giudiziaria di Meta è diretta contro due soggetti: una società che offre servizi di data-scraping, consentendo ai propri clienti di estrarre informazioni dai profili (pubblici) degli utenti e una persona che ha creato un sito nel quale riproduce sistematicamente i contenuti normalmente disponibili solo ad utenti Instagram.
Meta giustifica la propria azione in quanto – si legge sempre nell’annuncio di cui sopra – “industry leader in taking legal action to protect people from scraping and exposing these types of services, which provide scraping as a service across multiple websites” e afferma che “protecting people against scraping for hire services, operating across many platforms and national boundaries, also requires a collective effort from platforms, policymakers and civil society and is needed to deter the abuse of these capabilities both among those who sell them and those who buy them”. In altri termini, continua il comunicato, il motivo per il quale la multinazionale ha deciso di “fare causa” è la protezione delle persone da pratiche di accumulazione di dati messe in atto da chi “makes scraping available to individuals and companies that otherwise would not have the capabilities”.
Quindi, Meta non si lamenta del “cosa” – cioè della profilazione in sé o dello sfruttamento economico dei contenuti – ma piuttosto del “chi” compie azioni del genere. Secondo questa impostazione, accumulare e profilare dati su individui appare accettabile ma solo se è Meta ad occuparsene. Viceversa, questo non può essere consentito quando qualcun altro vuole fare lo stesso, ma senza avere investito un centesimo sul sistema che consente di creare un data-lake, o meglio, una riserva di pesca, dove far navigare solo i propri pescherecci e stendere le proprie sciabiche .
Se, tuttavia, le cose stanno effettivamente così allora bisognerebbe (ingenuamente) porsi due domande. La prima è perché, se i contenuti e dati resi pubblici dagli utenti sono di loro titolarità, soltanto Meta dovrebbe potersi avvantaggiare di ciò che gli utenti rendono volontariamente disponibile. La seconda è perché ad altri soggetti, diversi da Meta, dovrebbe essere impedito di fare liberamente lo stesso.
La risposta (che vale per entrambe le domande) non può essere quella fornita dall’azienda e sintetizzabile nel voler proteggere le persone. Se così fosse, infatti, allora l’intera piattaforma dovrebbe essere progettata non per trarre utili dalla profilazione ma come WikiTribune: “un posto dove non sono gli inserizionisti a prendere le decisioni, i dati non sono venduti, e dove l’utente, non l’algoritmo, decide cosa vedere”.
Appare invece più ragionevole spiegare la scelta di Meta con la volontà di impedire che altri sfruttino parassitariamente informazioni che, in teoria, dovrebbero appartenere solo a chi le pubblica (cioè agli utenti) ma che di fatto e per contratto sono in realtà utilizzabili anche e solo dalla piattaforma. Non, dunque, protezione delle persone ma dei propri interessi economici. O, detta in modo più palatabile dal punto di vista delle pubbliche relazioni, tutela dei propri interessi economici tramite la tutela dei diritti delle persone.
Ma di quali diritti stiamo parlando e, sopratutto, chi li dovrebbe tutelare effettivamente?
Sono stati versati fiumi di inchiostro sui pericoli della profilazione e sulla spregiudicatezza delle pratiche commerciali basate sul modello “dati in cambio di servizi”. Molti meno si è scritto sull’inerzia delle autorità che dovrebbero —loro sì— proteggere i diritti in questione.
Se il data-scraping è illegale perché lede i diritti delle persone – e lo è – allora non dovrebbe essere un’azienda privata a svolgere la funzione pubblica di proteggere gli utenti. Allo stesso modo, se certe pratiche di raccolta e analisi automatizzata di dati personali sono illegali dovrebbero essere le autorità indipendenti – non solo quelle sui dati personali, ma anche i regolatori del mercato e delle comunicazioni – ad intervenire. E dovrebbero farlo in modo strutturale, invece di limitarsi a provvedimenti, come quello recentemente emesso in Italia su Google Analytics che ricordano tanto la parabola della trave e della pagliuzza.
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