L’embargo tecnologico a danno della Russia ha accesso un dibattito anche all’interno della comunità del free software e dell’open source (che, è bene ricordarlo, non sono la stessa cosa). Alla domanda se impedire o meno alla Russia di accedere o utilizzare software regolato da licenze non proprietarie sono state date risposte molto diverse, da quelle attendiste a quelle interventiste, a quelle di chi, come Richard Stallman, ritiene che il Progetto Gnu dovrebbe rimanere neutrale su questioni politiche estranee agli obiettivi. La riflessione non è limitata al mondo del software perché un dibattito analogo era già sorto negli organi dell’internet governance a seguito della richiesta avanzata dalle autorità ucraine a Icann e Ripe Ncc (che hanno rifiutato) di impedire alla Russia l’uso di nomi a dominio e numeri IP di Andrea Monti – Originariamente pubblicato su Strategikon un blog di Italian Tech
Il punto, tuttavia, non è se questa o quella associazione di attivisti “decida” di applicare “sanzioni” peraltro – ma questo è un altro tema – in modo del tutto scoordinato dalle strategie diplomatiche dei singoli Paesi di appartenenza. Dovremmo invece domandarci quale assetto mondiale intendiamo costruire prendendo atto del salto all’indietro delle relazioni internazionali i cui toni ricordano i peggiori anni bui della Guerra Fredda. In linea di principio, la scelta di condividere software e infrastrutture solo con chi è parte dello stesso sistema di valori sarebbe perfettamente comprensibile e di certo non scandalosa. Di conseguenza, è certamente possibile interpretare questa o quella licenza anche “libera” in modo da revocare a cittadini e istituzioni russe i diritti di utilizzo di software o singoli componenti. Nulla impedisce alla Russia, però, di privare di valore la proprietà intellettuale straniera (cosa peraltro da sempre possibile nel sistema giuridico cinese) e appropriarsene ugualmente.
Si può, altrettanto certamente, escludere la Russia dall’accesso al sistema basato sui root Dns e sull’assegnazione degli IP che fanno funzionare la Big Internet. Tuttavia, ci si dovrebbe chiedere se la Russia voglia effettivamente continuare a farne parte. In altri termini, anche stando alle politiche di sovranità digitale attuate non da ora, potrebbe essere Mosca a volersi staccare dal resto del mondo (occidentale) e non viceversa.
Se le cose stessero così, tuttavia, dovremmo anche accettare che l’internet senza frontiere, il diritto a conoscere e modificare il software la neutralità tecnologica non sono valori globali e, forse, non lo sono mai stati. In altri termini, l’utopia universalistica di programmatori, hacker e visionari che hanno contribuito alla costruzione della rete come la conosciamo oggi dimostrerebbe la propria genetica fragilità e, per certi versi, ipocrisia. Il ritorno a una (mai peraltro realmente superata) logica di contrapposizione frontale fra blocchi non è compatibile con l’abbattimento delle frontiere e delle differenze etnoculturali “in nome della libertà della rete”.
Al contrario, in questo vecchio-nuovo scenario, i governi dovranno riprendere sempre di più il controllo di fatto, oltre che quello di diritto, sull’intero ecosistema tecnologico nel quale viviamo. Tradotto, anche da questa parte della Cortina di ferro potremmo dover accettare una limitazione dei diritti fondamentali. Questa sarebbe, infatti, una scelta obbligata se fosse necessario attuare politiche di blocco da scambi e contatti di qualsiasi tipo con “l’altra parte” se non – sperabilmente – quelli necessari per evitare di trasformare in realtà il finale di Iron Sky. Per quanto paradossale, rinunciare ai valori sui quali è stata costruita e funziona la rete significa accettare di vivere in una gabbia tecnologica dorata. Che è dorata, ma è pur sempre una gabbia, oppure è una gabbia, ma almeno è dorata. Questo, certamente, possiamo deciderlo in autonomia.
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