PuntoCom del 05-02-02
di Andrea Monti
L’ennesima riforma della legge sui dati personali ha semplificato (almeno così pare) gli adempimenti relativi ai casi e alle forme di richiesta di consenso al trattamento. In altri termini, ha eliminato il “consenso ovvio”. Anche se il settore del direct marketing sarà oggetto di specifica “attenzione” regolamentare, il nuovo scenario già consentirebbe qualche agevolazione a chi opera online e utilizza il noto schema del “tutto gratis, ma mi dici chi sei e cosa fai”. A condizione di mettere da parte questo approccio, difficilmente compatibile con la normativa, è infatti possibile usare la rete come reale strumento di contatto con la clientela. E per di più senza essere percepiti dall’utenza come degli sgraditi “intrusi”.
L’idea, dunque, è quella di rendere il consenso “ovvio” quanto più possibile. Sia utilizzando bene l’informativa, sia gestendo il rapporto con i potenziali clienti, in modo che siano questi ultimi a fornire spontaneamente i dati. Specie nei casi di attività precontrattuali promosse dall’interessato. Un modello alternativo, che si avvantaggia della novità legislativa, è basato sul “Permission Marketing”, teorizzato in USA nel libro omonimo da Seth Godin e indipendentemente, in Italia, da Giancarlo Livraghi nel libro “La coltivazione dell’internet”, edito dal Sole24Ore. L’idea di base – peraltro spesso deliberatamente mal capita – sta nel creare un “rapporto” con le persone in modo, come recita lo slogan di Godin, da “trasformare un estraneo in un amico, e un amico in cliente”. In altri termini, prima ancora di “parlare di affari” è necessario far si che una persona sia predisposta a farlo. E questo non accade certo – dice Godin – “sparando nel mucchio” (inviare decine di migliaia di messaggi ottenendo revenue bassissime). E nemmeno – aggiungo – ricorrendo all’impiego di complesse alchimie giuridiche per “estorcere” un consenso.
Dal punto di vista pratico, “rendere ovvio” il consenso implicherebbe evitare in prima battuta di raccogliere le generalità delle persone. Immaginate un servizio che offra un qualcosa di gratuito (come ce ne sono tanti sulla rete) ma a fronte di una registrazione anonima. L’utente sceglie un identificativo e risponde ad un questionario. Nello stesso tempo gli viene assegnata una mailbox sulla quale il fornitore gli comunicherà offerte, promozioni, iniziative. Così facendo sarà l’utente e solo l’utente – anonimo e dunque più ben disposto nell’interloquire con il fornitore – a decidere quando “accedere” ai contenuti promozionali e senza “intrusioni” non richieste. Se dovesse decidere di “approfondire” una particolare offerta sarà l’utente stesso “muoversi”. E a questo punto non sarà necessario ottenere il preventivo consenso al trattamento per dare seguito alle richieste del cliente.
Il vantaggio di questo approccio sta nell’essere alquanto indipendente – nella fase della raccolta dei dati – dalle prescrizioni normative. Perché la non identificazione degli utenti non fa rientrare le informazioni acquisite nella categoria “dati personali”.
Possibly Related Posts:
- Chatbot troppo umani, i rischi che corriamo
- Chi ci protegge dal dossieraggio tecnologico?
- Webscraping e Dataset AI: se il fine è di interesse pubblico non c’è violazione di copyright
- Perché Apple ha ritirato la causa contro la società israeliana dietro lo spyware Pegasus?
- Le sanzioni UE ad Apple e Google aprono un altro fronte nella guerra contro Big Tech (e incrinano quello interno)