Nelle vendite online il venditore non è sempre obbligato a praticare il prezzo esposto se è frutto di un errore
di Andrea Monti – PC Professionale n. 264 marzo 2013
Lo scorso quattro febbraio sul blog di PC Professionale ho commentato il caso segnalato da un utente e relativo all’errata indicazione da parte di Amazon.it del prezzo di un portatile e della conseguente cancellazione dell’ordine di chi aveva cercato di acquistarlo.
Il lettore – e anche molti altri che si sono trovati nella medesima situazione – si lamentavano del fatto che Amazon avrebbe violato i diritti dei consumatori perché nelle offerte al pubblico il venditore, specie se online, avrebbe dovuto tenere fede al prezzo indicato e dunque, in caso di errore, accollarsi la perdita. In realtà non è così perché Amazon si è comportata in modo legalmente e commercialmente corretto.
La norma di riferimento, in un caso del genere, è l’art. 1336 del Codice civile che disciplina la cosiddetta “offerta al pubblico”. Secondo questa norma quando un venditore espone un prodotto indicando anche il prezzo e le altre condizioni sta compiendo una “proposta di vendita” che, una volta accettata dall’acquirente diventa vincolante.
Tuttavia, specifica l’articolo, questo principio vale salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi, ed è proprio quello che è successo nel caso segnalato dal lettore di PC Professionale.
Le condizioni generali di contratto di Amazon.it (scritte peraltro in Italiano e non in legalese) che il cliente dichiara di avere letto ed accettato sono estremamente chiare sul momento di conclusione del contratto e sull’eventuale indicazione di un prezzo errato in eccesso o al ribasso.
Sotto il primo profilo, il processo di acquisto è strutturato in modo che quando l’utente conclude la procedura online è lui (l’utente) e non Amazon che sta formulando una proposta. Dunque, chi deve accettarla e farla diventare giuridicamente vincolante è Amazon e non l’utente. Dunque, ci troviamo esattamente nella situazione descritta dall’articolo 1336 del Codice civile perché le circostanze concrete (le condizioni generali di contratto e la procedura di acquisto online) dimostrano che non ci si trova di fronte a un’offerta al pubblico ma a una proposta dell’acquirente formulata nei confronti del venditore.
Inoltre, sempre a tutela dell’acquirente, l’articolo 3 delle condizioni generali di vendita di Amazon – e siamo al secondo profilo – dicono chiaramente che nel caso di errata indicazione del prezzo, Amazon ha il diritto di rifiutare la proposta del potenziale acquirente: “Qualora, a causa di disguidi o altri inconvenienti, il prezzo indicato nel sito dovesse risultare inferiore al prezzo corretto di vendita di un prodotto, ti contatteremo per verificare se desideri egualmente acquistare il prodotto al prezzo corretto. Altrimenti il tuo
ordine non potrà essere accettato.”
Sarebbe inoltre difficile configurare questa clausola come “vessatoria” (e dunque da approvare separatamente e per iscritto) o “abusiva” (e dunque addirittura nulla, per il Codice del consumo) dal momento che né l’art. 1341 del Codice civile né la normativa sulla tutela dei consumatori ne prevedono l’approvazione specifica.
Infine, vale la pena di rilevare che Amazon configura la proposta dell’utente come “semplice” e non “irrevocabile”. Ciò significa che l’utente ha una doppia protezione in caso di errata indicazione del prezzo: se Amazon per qualche ragione non si accorgesse dell’errore sarebbe sempre possibile per il cliente revocare la proposta.
Al di là dell’analisi giuridica del caso specifico, tuttavia, è necessario affrontare altri due aspetti evidenziati da questa vicenda.
Il primo è quello dell’importanza di leggere i contratti prima di accettarli. Il problema non riguarda solo il mondo dell’informatica, ma è vero che in questo settore è particolarmente rilevante. Chi ha mai letto veramente una licenza d’uso prima di accettarla? Chi è consapevole che Microsoft, ad esempio, può revocare il diritto dall’uso dei propri software quando vuole, senza che il legittimo licenziatario possa (facilmente) contestare la cosa? E dunque, tornando al caso dell’e-commerce, come si può lamentare la lesione di un proprio diritto se non ci si è presi la briga di sapere quali obblighi ci si stava assumendo con l’accettazione del contratto?
La risposta a questa domanda ci porta direttamente nel merito del secondo punto sul quale riflettere: quello del dovere di comportarsi correttamente.
E’ regola generale nel diritto dei contratti che le parti – tutte e due – devono agire secondo buona fede. Dunque, a fronte del dovere del venditore di spedire quanto richiesto, nei temi concordati e al prezzo pattuito, sta quello dell’acquirente di non abusare di errori palesemente riconoscibili (come nel caso del prezzo del portatile in questione). E dunque, vista la palese riconoscibilità dell’errore, forse proprio gli acquirenti potrebbero addirittura essere “messi sotto accusa” per avere cercato di avvantaggiarsi da una situazione che era chiaramente irrealistica. Se, infatti, il prezzo del portatile fosse stato qualificato come “offerta speciale”, “sottocosto” o altra dicitura analoga, allora ci sarebbe stato margine per invocare la buona fede del potenziale compratore: se un prodotto è in offerta allora il prezzo può essere effettivamente di qualsiasi entità. Ma se non era – come non era – questo il caso, allora non ci si può appellare a questa tesi per sostenere il diritto ad avere il prodotto a un prezzo ridicolo.
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