Ha concluso l’iter parlamentare la legge comunitaria, il grande calderone nel quale si mescolano le disposizioni per il recepimento delle direttive europee.
Non ostante l’Italia non abbia mai brillato per tempestività in questi adempimenti (ci sono voluti cinque anni per recepire la direttiva 90/388 che liberalizzava il mercato delle TLC), con l’istituzione della “comunitaria” si è raggiunta una parvenza di efficientismo e ora sono state prese in considerazione anche le famigerate direttive 2000/31/CE (commercio elettronico) e 2001/29/CE (diritto d’autore). La prima, con la scusa di “razionalizzare” il settore e “garantire maggiore tutela” dei diritti dei cittadini ha, di fatto, stabilito la responsabilità autonoma del provider per i contenuti ospitati sui propri server. Secondo una formula contorta e ipocrita, che – pur affermando formalmente il contrario – colpevolizza il fornitore di servizi che, dopo essere stato informato (da chi? in che modo?) della presenza di contenuti illeciti (secondo quale legge?) non provvede a rimuoverli.
La seconda, con lo stesso pretesto, consente un ulteriore giro di vite nella già inaccettabile ipertrofia protezionistica degli interessi economici di alcuni soggetti che poco o nulla hanno a che fare con l’autore in senso tecnico.
Quelli citati sono soltanto due fra i tanti abusi che vengono legittimati dalle direttive, ma evidentemente non sono stati sufficienti se, come spesso è accaduto, le solite “manine” hanno pensato bene di aggiungere qualche “tocco di classe” al testo in discussione in Parlamento. Come l’indicazione per la quale il legislatore dovrà “ridisciplinare le eccezioni ai diritti esclusivi di riproduzione, distribuzione e comunicazione al pubblico, esercitando le opzioni previste dall’articolo 5 della direttiva senza peraltro trascurare l’esigenza generale di una rigorosa tutela del diritto d’autore” (art. 30, lett. e), precisazione non presente nel testo della direttiva e aggiunta in un secondo momento da qualche zelante parlamentare. Che nient’altro significa, in realtà, se non accentuare ancora il processo di stravolgimento della gerarchia dei diritti già iniziato con il DLgs 518/92, volto ad anteporre gli interessi economici di chi commercia in opere dell’ingegno (e non degli autori, quindi) al di sopra dei diritti di libertà.
Al di là delle analisi più o meno dettagliate e rigorose che si possono condurre sul testo della legge, è rilevante il dato metagiuridico o, meglio, politico, che emerge dai contenuti del provvedimento.
Da un lato i provider – pur dotati di risorse e competenze – brillano accecantemente per la loro assenza e dunque ancora una volta (vedi l’affaire 103/95) si troveranno a dover chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati.
Dall’altro, le lobby del copyright, dopo il pay per view e il pay per listen hanno creato un nuovo prodotto: la law on demand.
Parliamoci chiaro, che i Parlamenti non siano esattamente luoghi impermeabili ed impenetrabili da “influenze” esterne è fatto noto. Certo è che nei tempi andati almeno si rispettava almeno un minimo di etichetta, mentre ora la spudoratezza raggiunge vette sempre più alte.
Se dunque le leggi – al pari di quadri, libri e dischi – si commissionano, sarebbe almeno auspicabile che siano resi pubblici “autori” e “listini”. Certe cose non si possono mica comprare a “scatola chiusa”. Manco fossero una nota marmellata…
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