I toni trionfalistici che hanno accolto le sentenze contro Apple e Google non tengono conto di una conseguenza: la dimostrazione di una certa fragilità europea di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – Italian Tech La Repubblica
Le sanzioni inflitte dalle istituzioni comunitarie ad Apple e Google sono state celebrate come una vittoria nei confronti dello strapotere di Big Tech e la riaffermazione della preminenza dello stato di diritto, cioè del principio in base al quale nessuno è sopra la legge. In realtà non è così perché, ad una lettura un po’ più approfondita, questa vicenda smentisce i toni trionfalistici ed evidenzia pericolose incrinature nella sempre più fragile “soggettività europea”.
Lo spostamento dell’asse tolemaico del potere
Quanto ai toni trionfalistici, è appena il caso di notare che nel multipolarismo geoconomico dei nostri tempi un’aggregazione di 27 Paesi pur molto diversi fra loro e con interessi nazionali confliggenti è certamente un mercato interessante ma non è necessariamente il più appetibile né quello in grado di orientare le scelte di altre nazioni o gruppi di nazioni (BRICS, per esempio). Possiamo crogiolarci nell’illusione di “scrivere norme” che verrebbero “copiate” da tutto il mondo e di essere il “faro dei diritti” ma, purtroppo per noi, la realtà è un’altra. L’asse attorno al quale gira il mondo si è spostato ma, tolemaicamente, continuiamo a pensare che non sia così. Un esempio è il “regolamento AI” che, a prescindere dalle valutazioni di merito, entrerà in vigore fra un paio d’anni.
Dunque, mentre il resto del mondo corre a briglie sciolte, la UE sembra seguire un altro motto: in fretta, ma con attenzione! preoccupandosi di regolare come devono essere fatte selle, brigliee finimenti senza avere nemmeno un cavallo (o sapere come è fatto).
Veniamo ora al caso Apple, che la Corte di giustizia UE ha deciso ritenendo che le agevolazioni di cui l’azienda ha goduto fossero aiuti di Stato e dunque da restituire.
Il caso Apple e il ruolo dell’Irlanda
Non da oggi, l’Irlanda è il Paese che, grazie a delle precise scelte di politica fiscale, si è resa attrattiva per Big Tech le cui filiali comunitarie (o “unionali” come si dice adesso) sono quasi tutte lì; ed è grazie a questa scelta “esistenziale” che l’Irlanda ha potuto godere di un certo sviluppo economico. Di conseguenza, i vantaggi fiscali conseguiti da Big Tech non sono frutto di evasione, elusione o altre “magie” di ingegneria tributaria, ma del rispetto di una norma, discutibile quanto vogliamo ma sempre norma, emanata da uno Stato sovrano.
Se, dunque, Apple si è limitata a trarre vantaggio da una norma legittimamente emanata dalle istituzioni irlandesi e questa norma è stata dichiarata contraria al Trattato UE, è intuitivo pensare che dovrebbe essere disapplicata a partire dalla data della sentenza della Corte e non, come invece è, retroattivamente. Inoltre, se la normativa in questione è stata considerata contraria al Trattato UE, allora l’Irlanda dovrebbe essere sottoposta a sua volta ad una procedura di infrazione o comunque a qualche forma di reprimenda per avere creato un regime fiscale anticoncorrenziale.
Il dilemma giuridico e l’incertezza della norma
A questo punto, come direbbero gli esperti di logica classica, il dilemma diventa cornuto. Delle due l’una, infatti: o l’Irlanda viene messa sotto processo e, vista la decisione della Corte UE, sicuramente condannata, e allora potrebbe innescarsi anche in Irlanda una reazione anti-europea per le inevitabili conseguenze negative sull’economia interna, che si aggiungerebbe all’euroscetticismo dilagante.
Oppure la UE non attiva alcuna procedura nei confronti dell’Irlanda, e allora il messaggio percepito da un’entità straniera che volesse investire in uno dei 27 Paesi dell’Unione sarebbe di ulteriore incertezza giuridica, rispetto a quelle già suscitate dall’arresto di Pavel Durov in Francia. Cioè la negazione di quello “stato di diritto” che le istituzioni europee dichiarano di osservare, o meglio, di venerare come principio fondante.
Passiamo, infine, al caso Google. L’accusa è di “abuso di posizione dominante” per il modo in cui veniva gestito il servizio “Google Shopping”, un comparatore di prezzi che, secondo le autorità europee, era progettato per favorire venditori che avevano sponsorizzato il proprio sito rispetto agli altri.
La multa a Google mentre Google continua a crescere
Ora, a parte il fatto che, con buona pace delle accuse di lentezza mosse alla giustizia italiana, ci sono voluti sette anni per avere un verdetto (il caso risale al 2017), viste le tante contestazioni che si potrebbero muovere al modo in cui funziona Google, preoccuparsi del suo comparatore di prezzi ricorda molto da vicino la storia di quello che si preoccupa di chiudere il lucernario mentre sta per essere travolto da una valanga.
Negli ultimi dieci anni, Google ha già pagato quasi otto miliardi e mezzo di Euro —8,25 per la precisione— di sanzioni per violazioni antitrust, ma questo non ha rallentato la crescita e la pervasività dei servizi offerti da Alphabet (la capogruppo che possiede Google). Dunque, sanzioni che all’uomo della strada (ma anche a qualche Stato) possono sembrare stratosferiche, nel bilancio di multinazionali come quelle di cui stiamo parlando diventano perdite da gestire, magari già messe “a riserva” in bilancio, sapendo che presto o tardi sarebbero arrivate.
Nella relazione diplomatica fra due entità prive di soggettività politica (Google perché è un’azienda e la UE perché non è uno Stato) ma che negoziano come se la avessero, le sanzioni sono, in realtà, un modo per evitare l’escalation del conflitto. Infatti, senza questo livello intermedio di sanzioni irrogate una volta ogni tanto che consentono alla UE di mandare messaggi essenzialmente diretti al proprio interno, Big Tech non avrebbe alternative rispetto all’abbandonare il mercato unionale con le conseguenze che è facile immaginare non tanto per loro, quanto per noi (e che questa sia un’opzione è dimostrato dal fatto che Meta e Apple hanno deciso di limitare al disponibilità delle loro AI nell’Unione Europea).
Il filo che lega Big Tech e Ue rischia ora di rompersi
Ma nella prospettiva multipolare di cui si diceva prima, il conflitto non sarebbe limitato ai due contendenti (Big Tech e UE). È abbastanza chiaro, infatti, che il filo rosso che lega il caso Apple a quello Google è la forza del cavo usato nel “tira e molla” fra Big Tech da un lato e UE dall’altro.
Fino a quando la corda regge i concorrenti rimangono in equilibrio; ma se dovesse cedere, cederebbe di schianto provocando, per esempio, l’attivazione di un meccanismo di reciprocità in base al quale se la UE può sanzionare un’azienda USA, allora gli Stati Uniti possono rivendicare il diritto di fare lo stesso nei confronti di qualsiasi azienda basata in uno dei Paesi dell’Unione, attaccando così l’economia nazionale e non quella dellUE (che non essite); oppure, vista la minaccia per un comparto fondamentale dell’economia USA, l’adozione di misure analoghe a quelle che l’allora presidente Trump prese nei confronti del Venezuela).
In altri termini, ci troveremmo di fronte, per usare un’immagine irriverente ma efficace, in una Royal Rumble degna delle migliori telecronache del grande Dan Peterson, con la differenza che mentre gli incontri di Wrestling sono finti, le conseguenze dello scontro fra imprese, nazioni e UE sarebbero drammaticamente reali.
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