Il contact tracing online cambia mestiere: da mezzo di contrasto al contagio, a strumento di ordine pubblico. Possiamo permettercelo? L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di diritto dell’ordine e della sicurezza pubblica all’Università di Chieti-Pescara – Originariamente pubblicato d Formiche.net
Una serie di tweet della rete americana NBC News rilancia la notizia secondo la quale le autorità del Minnesota useranno i dati dei software di contact-tracing per il contrasto al coronavirus nell’ambito delle operazioni di ordine e sicurezza pubblica rese necessarie a seguito delle proteste antirazziste scoppiate per la morte di George Floyd causata da un operante della polizia.
Questo annuncio riaccende le polemiche sui rischi di abusi da parte dello Stato, se gli si lascia la possibilità di avere a disposizione grandi quantità di dati di ogni genere sui cittadini e, in Italia, rinforza la posizione di chi ha applaudito l’incredibile complicazione tecnologica che “per proteggere la privacy” ha ritardato e castrato lo sviluppo di Immuni, l’“app”osito software che dovrebbe avvisarci se siamo entrati in contatto con qualcuno risultato positivo al Covid-19.
In realtà, ci sono diverse ragioni per le quali Immuni e i suoi omologhi non hanno senso in relazione al modo in cui sono stati concepiti (intrinseca inaffidabilità dei risultati, utilità limitata, dipendenza da sistemi operativi e modelli di smartphone), ma il riutilizzo dei dati da parte dello Stato per altre finalità non è fra queste.
Il Codice dei dati personali, infatti, già prevede che operatori telefonici e internet provider conservino obbligatoriamente tutti i dati di traffico telematico per 72 mesi da mettere a disposizione della magistratura. La normativa civilistica e fiscale impone che transazioni bancarie e pagamenti siano memorizzati per dieci anni, oggetto anche questi di sequestro da parte della magistratura, come anche le cartelle cliniche degli ospedali. In ordine pubblico “calcistico”, poi, il concetto di “flagranza differita” si è tradotto nella videoripresa degli scontri e delle violenza degli ultras, nella successiva analisi dei filmati e nella denuncia dei soggetti così identificati. Dunque, già ora esistono enormi archivi delle nostre comunicazioni, dei nostri spostamenti e delle nostre attività che sono stati costituiti per altre finalità ma che possono essere utilizzati anche dall’autorità giudiziaria. Aggiungere anche i dati provenienti da Immuni, dunque, non cambierebbe di molto la situazione: un pubblico ministero ha, per definizione, il potere di accedere e sequestrare qualsiasi cosa (dati inclusi) che sia necessaria alle indagini.
La scelta delle autorità del Minnesota rivela, tuttavia, un pregiudizio meno evidente ma non meno importante nella retorica distopica di chi ha paura dello Stato: quella di invocare la “privacy” come immunità e impunità per la commissione di atti illeciti. Protestare è sacrosanto ed è il diritto fondante di una democrazia. Vandalizzare, distruggere e picchiare sono, invece, comportamenti che ledono l’ordine pubblico e come tali vanno prevenuti prima che accadano, contenuti quando si manifestano, puniti quando sono cessati. Non dovrebbe suscitare alcuno scandalo, quindi, se un’autorità pubblica utilizza ciò che ha a disposizione – dati di contact tracing inclusi – per assolvere al proprio ruolo istituzionale. E non si capisce perché la “privacy” di chi commette atti illeciti dovrebbe essere “tutelata” quando si tratta di contact-tracing ma tranquillamente “violata” quando si tratta di utilizzare trojan di Stato, i “captatori informatici” che si infiltrano negli smartphone e ne prendono il controllo.
Peraltro, nel caso del Minnesota, l’uso dei dati di contact-tracing per finalità di polizia è trasparente e dichiarato, dunque non siamo nemmeno di fronte a un caso di utilizzo clandestino di queste informazioni.
In conclusione, dunque, bisogna rendersi conto che tutte le volte che si accumulano dati per qualsiasi ragione o qualsiasi scopo, lo Stato ha il potere-dovere di accedervi per finalità di ordine pubblico e amministrazione della giustizia. Così, anche se i dati di Immuni saranno disponibili solo per un paio di settimane, nulla vieterebbe agli inquirenti di acquisirli.
E qui si manifesta un altro paradosso: per “proteggere la privacy” i dati di Immuni sono crittografati e dunque non immediatamente comprensibili da chi vi avesse accesso, nemmeno dunque al Pubblico ministero. Questi, di conseguenza, se volesse utilizzarli dovrebbe chiedere allo Stato – cioè a se stesso – di consegnare le chiavi di decifrazione, rischiando di sentirsi rispondere che le chiavi non ci sono “per questioni di privacy”.
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