Non serve una legge per bloccare le Fake News, ma il recupero della professionalità del sistema informazione
di Andrea Monti – PC Professionale giugno 2017
Per qualche giorno del recente passato, le Fake News hanno bulgaramente occupato gli spazi dell’informazione professionale e della politica, spingendo i media a parlare di emergenza disinformazione e rappresentanti delle istituzioni a invocare e proporre leggi (peraltro inutile e sbagliate) per “arginare il fenomeno”.
Poi, come si dice, “passata la festa, gabbato il Santo”: le Fake News non fanno più notizia e, per contrappasso, spuntano studi che mettono in discussione il loro effetto dirompente.
E’ il caso di Search and Politics: The Uses and Impacts of Search in Britain, France, Germany, Italy, Poland, Spain, and the United States, uno studio della Oxford University e della Michigan State University secondo il quale – così viene affermato da Repubblica.it che in data 8 maggio 2017 riporta la notizia – gli internauti italiani sarebbero
Scettici, puntigliosi fact-checker, pluralisti, disposti a cambiare idea e vaccinati contro le bufale.
All’apparenza, questa notizia sembrerebbe ineccepibile quanto lo studio del quale riferisce, ma un piccolo approfondimento rivela qualcosa di diverso.
A pagina 12 dello studio, infatti, gli autori della ricerca pubblicano un paragrafo dal titolo (autoesplicativo) “Limitations”:
This study brings systematic, cross-national evidence to bear on the actual role that search and online media in general are playing in shaping political opinion. However, it is anchored in an online survey that samples Internet users – not the general public – in seven nations. The sample therefore over represents some demographic segments, such as individuals with more schooling, compared to a random survey of the general population. It is also necessarily limited by a focus on the perceptions of Internet users, rather than the study of their actual behavior over time. However, in light of previous research, which has been primarily focused on trace behavior online, our study tends to reinforce and complement work that shows the limits of overly simplistic theoretical perspectives on the bias of search – ones that often underestimate the intelligence, ingenuity, and unpredictability of Internet users across different national contexts.
Sintetizzando la traduzione, i punti essenziali del paragrafo sono:
- lo studio è condotto su questionari somministrati a utenti della rete in sette nazioni e non ad un pubblico generico,
- il campione rappresenta alcuni segmenti demografici (come per esempio: individui scolarizzati) rispetto invece di un campione casuale di persone,
- l’analisi ha riguardato la percezione degli utenti, e non il loro effettivo comportamento.
Limitazioni non banali, dunque, perché pur annegate in oltre duecento pagine di parole, tabelle e grafici, dicono chiaramente che i risultati di questo studio hanno un valore poco più che tendenziale e di certo non assoluto.
Ma di questi limiti, nell’articolo di Repubblica.it, non c’è traccia. Eppure, evidenziarli sarebbe stato importante perché avrebbe aiutato il lettore a contestualizzare il valore dei risultati e a riconoscere lo studio per quello che è: un’analisi empirica e non conclusiva.
Al contrario, l’articolo in questione presenta i risultati della ricerca come assoluti (o quantomeno, omette di qualificarli come parziali e non rappresentativi) e induce nel lettore una percezione alterata delle conclusioni, che vengono accreditate come valide più dal principio di autorità (ricerca eseguita da importanti istituzioni dell’accademia) che dal valore intrinseco del lavoro.
Se fossimo di fronte a un caso isolato non ci sarebbe molto di cui parlare. Può capitare al migliore dei giornalisti di scrivere qualcosa di impreciso o poco rigoroso. Ma l’articolo di Repubblica.it non è l’unico ad avere un approccio del genere, che è molto comune quando i media tradizionali si occupano di notizie scientifiche o comunque legate al mondo della ricerca.
Ma cosa c’entra questo discorso con le Fake News?
C’entra e come, se ci si ferma un attimo a pensare alla differenza fra informazione professionale e “semplice” post su un social network.
Il fenomeno delle Fake News è stato innescato dalla irresponsabilità dei mezzi di informazione che – nella fregola di pubblicare notizie, specie di costume o attualità – hanno cominciato a prendere per buona qualsiasi fesseria trovata in rete. Non ci si può lamentare, poi, se dopo aver elevato al rango di “fonte qualificata” delle affermazione non attendibili, le persone prendano per buono tutto quello che, oramai, viene considerato come giornalisticamente valido.
Dunque, anche se articoli come quello di cui parlo in questo pezzo non possono certo essere qualificati come “fake news”, in realtà sono – per certi versi – peggio di una bufala, perché l’apparenza dell’oggettività giornalistica e della patente di autorevolezza che implicitamente attribuiamo all’editoria professionale nascondono parzialità e imprecisione a scapito del lettore.
Come già per il “cyberbullismo” e per il “cyberspazio” non serve una legge per le Fake News, nè ha senso cercare di imporre a internet provider e gestori di piattaforme degli impossibili obblighi di monitoraggio preventivo che, in un’altra lingua, si chiamano più nitidamente “censura”. Basta recuperare la deontologia del settore dell’informazione professionale, e relegare le stupidaggini che girano online dove è giusto che stiano.
A margine, infine, ci si dovrebbe anche domandare quale sia il senso di compiere ricerche dichiaratamente prive di valore generale e dunque sostanzialmente inutili, che poi vengono mal comprese e peggio veicolate.
Ma questo è un altro tema.
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