Il contrasto oramai strutturale fra la tutela globale dei diritti individuali e quella degli interessi dello Stato mette in luce la crisi del modello basato sulla Convenzione europea dei diritti umani. La scelta inglese potrebbe avere conseguenze che vanno ben al di là del riprendere il controllo su sovranità e sicurezza. L’intervento di Andrea Monti, professore incaricato di Digital law, Università di Chieti-Pescara – Originariamente pubblicato da Formiche.net
Il 14 dicembre 2021, dando seguito alle anticipazioni riportate dalla stampa qualche mese prima, il ministro della Giustizia inglese Dominic Raab ha annunciato un progetto di riforma del Human Rights Act, la legge inglese sui diritti umani. La riforma eliminerà in radice qualsiasi automatismo fra le decisioni assunte dalla Corte europea dei diritti umani e la loro applicabilità nel Parlamento e nelle corti britanniche. Dunque, anche se formalmente il Regno Unito continuerà a rispettare la Convenzione di Strasburgo, di fatto il nuovo Human Rights Act la ripudierà.
Il ripudio di fatto della Convenzione europea dei diritti umani
Questa conclusione è evidente leggendo (nemmeno troppo) fra le righe della presentazione del progetto di riforma: “The UK will remain party to the ECHR and continue to meet its obligations under the convention and all other international human rights treaties. However, Ministers will ensure the UK Supreme Court has the final say on UK rights by making clear that they should not blindly follow the Strasbourg Court. It will mean that rights are interpreted in a UK context, with respect for the country’s case law, traditions, and the intention of its elected law makers”.
Le ragioni della scelta inglese
Se portata a termine, questa riforma consentirà alla autorità britanniche di gestire in sostanziale autonomia le scelte di politica pubblica in materia di sicurezza, contrasto alla criminalità e al terrorismo senza subire “interferenze” da parte di un organismo — la Corte di Strasburgo, appunto — le cui decisioni sono considerate “aliene” rispetto alla tradizione giuridica inglese e inaccettabilmente “interferenti” con le scelte politiche assunte al numero 10 di Downing Street.
Le ragioni della riforma (o — a seconda della prospettiva — del conflitto con la Corte europea) sono evidenziate nel Chapter 3 della Consultazione pubblica tuttora in corso. Per quanto interessa in questa sede, il documento evidenzia, a pagina 28, l’impatto negativo causato dalla crescita sbilanciata della “cultura dei diritti” su responsabilità individuale, interesse pubblico e pubblica sicurezza; mentre a pagina 29 critica la living instrument doctrine elaborata dalla Corte europea, ironia della sorte, proprio in un procedimento contro il Regno Unito. In base a questo principio la Convenzione sui diritti umani può essere interpretata — ed è questa la critica inglese — applicandola anche al di là dei diritti originariamente previsti. Un caso fra tutti citato dal documento è l’articolo 8 sul diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Al di là degli esempi indicati nelle fonti ufficiali, è ragionevole pensare che abbiano contribuito a maturare la scelta politica in questione anche altre decisioni, come quella risalente allo scorso giugno 2021 con la quale la Corte aveva sanzionato il Regno Unito per la gestione della sorveglianza di massa o, prima ancora quella del 2008 con la quale aveva stigmatizzato il rifiuto dell’amministrazione giudiziaria di cancellare impronte digitali e sequenze di DNA dai database di polizia dopo assoluzioni e archiviazioni. In entrambi i casi, la Corte di Strasburgo è infatti entrata direttamente in ambiti che costituiscono il cuore della politica di qualsiasi Stato, condizionandone (almeno in teoria) le scelte.
Il significato politico della scelta inglese e l’impatto sui rapporti internazionali
Sarebbe troppo facile “liquidare” il ripudio di fatto della Convenzione europea dei diritti umani richiamando il tradizionale “isolazionismo” britannico perché, in realtà, la scelta politica del governo inglese è la riaffermazione della prevalenza degli interessi e della giurisdizione nazionali sul diritto dei trattati. Non dissimilmente dalla “ribellione costituzionale polacca” che ha esposto i limiti (peraltro noti) dei trattati fondativi dell’Ue, la decisione inglese rivendica il diritto di uno Stato di avere l’ultima parola su questioni cruciali per la sopravvivenza dello Stato stesso.
Il punto, dunque, non è il merito della riforma ma il suo significato politico: in materia di sicurezza (sia essa pubblica, nazionale o giudiziaria) non ci possono essere interferenze esterne, e men che meno da parte di organismi (le Corti internazionali) composti da un numero limitato di persone fisiche provenienti da culture ed esperienze diverse e aliene.
In altri termini, l’approccio (non solo) inglese è diametralmente opposto a quello che ha ispirato la creazione di apparati giudicanti internazionali o “a-nazionali” e non solo nell’ambito dei diritti umani.
In un modello economico-industriale globalizzato, la catena di comando e controllo si estende oltre i confini statali e si “aggancia” a strutture private multinazionali. In questo contesto, dunque, i tribunali internazionali (dal WTO alle corti sportive) svolgono un ruolo importante nella creazione di un sistema globale di regole e di softlaw che sono un presupposto indispensabile per la certezza degli scambi economici e per la circolazione delle persone.
Tuttavia, negli ultimi tempi, gli effetti collaterali di questa impostazione sono stati l’incremento, dell’uso del diritto transnazionale come sistema di pressione geopolitica e l’insofferenza degli esecutivi verso regole che, emanate in nome degli stessi diritti da tutelare, limitano public policy basate sul whatever it takes.
Traendo, allora, le dovute conseguenze dal rifiuto dell’eterodirezione di organi privi di reale sovranità, si dovrebbe concludere per la necessità di rifondare l’intero sistema della governance mondiale recuperando la prevalenza dei concetti definiti dalla Pace di Westfalia su quelli di tipo neomedievale. A prescindere dalla sua desiderabilità, che il processo sia in atto è abbastanza chiaro; quello che non lo è affatto è in che modo e con quali conseguenze potranno coesistere due approcci geopolitici diametralmente opposti.
Perché l’Italia dovrebbe riflettere sulla scelta inglese
A differenza del Regno Unito, l’Italia non ha (o non vuole avere) una percezione nitida di come interagiscono politica e diritti relativamente alla gestione della sicurezza nazionale e alla tutela dei relativi interessi.
Mentre altri Paesi occidentali — ma anche medio ed estremo orientali — hanno ben chiaro il ruolo delle rispettive strutture di intelligence e degli apparati di sicurezza, l’Italia è ancora in mezzo al guado, impantanata in una normativa — la legge 124/07 — molto più anacronistica di quanto la sua età anagrafica lasci pensare.
Come se non bastasse, il quadro è reso ancora più confuso dalla normativa sul perimetro nazionale di sicurezza cibernetica, dalla legge istitutiva dell’Agenzia per la cybersecurity e dal Codice delle comunicazioni elettroniche appena entrato in vigore.
Dappertutto si parla di “sicurezza nazionale” ma, parafrasando l’Araba Fenice del Metastasio, che vi sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa. Dunque, riformare la legge 124/07 significa domandarsi innanzitutto a tutela di quali interessi dovranno operare gli apparati di sicurezza dello Stato, fino a che punto potranno spingersi e quale sarà il limite oltre il quale non potranno essere accettate “ingerenze” da parte di organismi e soggetti extranazionali.
Le risposte a questi interrogativi non sono semplici. Presuppongono la scelta di definire o meno un confine politico invalicabile per chiunque, quando sono in gioco gli interessi del Paese. Richiedono, dunque, di prendere anche atto del superamento da parte della Ue dei limiti di competenza in materia di sicurezza nazionale posti dal comma II dell’articolo 4 del Trattato di Maastricht, che la Ue sta di fatto oltrepassando valendosi di un approccio analogo alla living instrument doctrine della Corte di Strasburgo.
Non sfuggono la delicatezza della situazione e la gravità delle conseguenze in caso di errori o ambiguità decisionali. Di certo, però, l’unica opzione impraticabile è il rinvio di una scelta i cui effetti si possono soltanto governare (se assunta per tempo) o subire (se dilazionata sine die).
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