Il progetto DNS4EU – un DNS resolver europeo – continua discretamente a svilupparsi. A seconda della prospettiva, è uno strumento di indipendenza tecnologica dell’Unione o di controllo centralizzato dei cittadini. In ogni caso, rappresenta una cesura nella filiera dell’Internet Governance mondiale. L’intervento di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law nel corso di laurea magistrale in Digital Marketing dell’università di Chieti-Pescara – Inizialmente pubblicato su Formiche.net
La crisi ucraina ha portato alla ribalta un tema scomodo nel dibattito pubblico sulle telecomunicazioni: quello dell’internet governance. Fra le richieste di Kiev, infatti, c’è stata anche quella di impedire alla Russia l’utilizzo degli IP (le “targhe informatiche” dei computer connessi con la Big Internet) e del DNS (il sistema che “converte” gli IP in sequenze di caratteri “intelligibili” per gli esseri umani).
Se accolta, la richiesta avrebbe estromesso Mosca dalla possibilità di usare la rete al di fuori dei propri confini, provocando così un danno senz’altro molto consistente.
La richiesta non è stata accolta e quindi i cittadini russi sono ancora liberi di utilizzare l’internet per attività di varia natura, compresi attacchi alle infrastrutture tecnologiche di molti Paesi, Italia inclusa. A fronte dell’iperattivismo sul fronte degli attacchi informatici geograficamente riferibili alla Russia ma non esplicitamente attribuibili al suo governo e della possibilità di limitarne l’impatto ci sarebbe da chiedersi quale sia stata la motivazione politica della scelta di privilegiare lo status quo.
La Ue e gli esecutivi hanno avuto direttamente voce in capitolo sui sequestri dei beni di cittadini russi o sul supporto militare all’Ucraina. Tuttavia, il potere di intervenire su elementi critici per l’accesso alla Big Internet non risiede nelle loro mani. Esso appartiene a delle organizzazioni private che fanno parte di quella che, collettivamente, si chiama Internet Governance. Certo, astrattamente i singoli governi avrebbero potuto emanare dei provvedimenti urgenti per raggiungere l’obiettivo, ma nei confronti di chi?
Il sistema di gestione dei numeri IP è sotto il controllo di “cinque sorelle” che negoziano da pari a pari con governi e soggetti istituzionali. I 13 root Name Server sono gestiti da soggetti privati, come privati sono i registrar che consentono l’assegnazione dei nomi a dominio secondo le regole fissate dalla Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (www.icann.org).
Fino a quando i governi non avranno un controllo diretto (come per esempio accade con i nomi a dominio in Francia) sull’internet governance, la sovranità tecnologica potrà essere raggiunta solo (molto) parzialmente.
L’annunciata volontà della Commissione Ue di finanziare DNS resolver in aperta concorrenza con quelli statunitensi, ora concretizzata nella pubblicazione di un bando si inserisce in questo dibattito.
La proposta ha suscitato interesse e preoccupazione negli organismi dell’internet governance. Si tratta di una reazione comprensibile, considerando infatti che la creazione di resolver comunitari sarebbe potenzialmente il primo passo per una statalizzazione del controllo diretto sui sistemi che, a basso livello, fanno funzionare la Big Internet.
Il tema è straordinariamente complesso.
Da un lato un sistema di resolver comunitari consentirebbe di rispondere alle più evidenti questioni legate alla possibilità per la Ue di esercitare un controllo diretto sulla circolazione dei contenuti, bloccare l’accesso alla rete e, in generale, adottare misure interdittive immediatamente efficaci nell’ambito di strategie politiche. Dall’altro, il finanziamento anche parziale delle imprese che dovrebbero operare in questo settore pone problemi legati alla concorrenza, all’alterazione del mercato e alla funzionalità stessa dell’infrastruttura tecnologica europea. Per non parlare, poi, del paradosso che si genererebbe se venisse consentito ad aziende extracomunitarie di entrare nella compagine sociale degli operatori di servizi di risoluzione. Fino ad ora le preoccupazioni dei garanti europei e della Corte di giustizia si sono concentrate sull’impatto del Fisa americano sui dati dei cittadini europei trasferiti in Usa.
Nessuno, ancora, ha invece voluto aprire il vaso di Pandora del Cloud Act che consente alle autorità Usa di ottenere da aziende americane dati e informazioni detenute dalle loro filiali localizzate al di fuori degli Stati Uniti e dunque anche in Europa.
Inevitabilmente, dunque, il tema della (ri)presa di controllo delle strutture di governo della Big Internet passa anche per la valutazione di scelte di limitazione dell’ingresso di capitali stranieri nelle entità che se ne dovranno occupare.
Nel 2019 la Ue ha emanato un regolamento e delle linee guida per coordinare i Foreign Direct Investments e lo stesso anno l’Italia ha significativamente esteso l’operatività del Golden Power anche a comparti tecnologici.
Il tema (geo)politico, tuttavia, viene prima degli aspetti regolamentari e riguarda la scelta di sistema di ampliare ulteriormente o meno il coinvolgimento del settore privato in settori critici per la sopravvivenza dello Stato, rinforzando oppure arginando il paradigma tecno-neomedievalista.
Possibly Related Posts:
- Chi ci protegge dal dossieraggio tecnologico?
- Perché Apple ha ritirato la causa contro la società israeliana dietro lo spyware Pegasus?
- Le sanzioni UE ad Apple e Google aprono un altro fronte nella guerra contro Big Tech (e incrinano quello interno)
- La rottura tra Stati e big tech non è mai stata così forte
- Le accuse mosse a Pavel Durov mettono in discussione la permanenza in Europa di Big Tech