di Andrea Monti – PC Professionale n. 167
Un provvedimento americano analizza fino a che punto sia lecito utilizzare marchi altrui per vendere servizi pubblicitari basati su “parole chiave”
Un provvedimento dell’US District Court della Virginia (www. ictlex. net /index. php?p=439) emanato il 25 agosto 2004 ha parzialmente accolto le richieste che la Government Employees Insurance Company (Geico), una nota compagnia assicurativa statunitense, ha avanzato nei confronti di Google in relazione al servizio “AdWords” che veniva utilizzato per pubblicizzare i nomi dei concorrenti, quando veniva cercato il nome Geico.
In particolare, il giudice Brinkema, ha ritenuto sussistenti ben sei degli otto capi d’accusa a carico di Google, vale a dire: violazione di marchio, concorrenza sleale e “vicarious infringement”, cioè – grossomodo – “concorso nella violazione” commessa da terze parti. Questa decisione è sostanzialmente coerente con il Jugément n. 03/00051 emesso il 13 ottobre 2003 dal Tribunal de grande instance de Nanterre e reperibile su www.ictlex.com/wp-content/ tginanterre20031013.pdf.
Il tribunale francese aveva infatti condannato Google France al risarcimento di 70.000 euro per i danni provocati dalla violazione dei diritti sui marchi di due società tramite associazione di nomi protetti a servizi offerti da concorrenti. In pratica, la materia del contendere si riduce a una domanda: fino a che punto è lecito utilizzare marchi e denominazioni altrui per vendere servizi pubblicitari o promozionali basati su “parole chiave”? È una domanda che i gestori di motori di ricerca e servizi assimilabili (eBay, MSN e tutti quelli che usano tecnologie di “word-matching”) cominciano a porsi sempre più spesso, viste le continue lamentele di chi – anche in Italia – vede il proprio segno distintivo “associato” ai risultati “sponsorizzati” dell’interrogazione di un motore di ricerca, o impiegato per raffinare quanto selezionato.
Per fare un esempio, se scrivendo PC Professionale nell’interrogazione di un motore di ricerca, quest’ultimo restituisse tra i risultati sponsorizzati il nome di una testata concorrente, ci troveremmo di fronte all’uso non autorizzato del nome di una testata per pubblicizzarne un’altra. Come si è visto, la risposta della (non numerosa) giurisprudenza internazionale va nella direzione di considerare “non leciti” certi prodotti pubblicitari e le relative strategie di marketing sul presupposto – inespresso ma evidente – che la tutela dei segni distintivi prevalga sulla libertà di impresa.
Benché in Italia non ci siano casi identici, si può giungere a una conclusione analoga studiando la giurisprudenza che si è formata in materia di nomi a dominio e di utilizzo di meta-tag.
Nel primo caso (una rassegna delle decisioni italiane è disponibile su www.ictlex.net/index.php?cat=9) i giudici hanno pressoché unanimemente ritenuto – al di là delle questioni di lana caprina se il “dominio” sia un marchio o un semplice indirizzo – che utilizzare un marchio altrui per rendere raggiungibile un sito o altro tipo di servizio di rete può essere un atto di concorrenza sleale e una violazione dell’utilizzo lecito di un marchio. Orientamento del tutto analogo venne espresso dal tribunale di Roma con l’ordinanza 18 gennaio 2001 (www.ictlex.net/index.php?p=154) che si è occupata del caso di una compagnia assicurativa che aveva inserito come meta-tag nelle proprie pagine, il nome di un noto concorrente.
Anche in Italia, dunque, non sarebbe possibile l’utilizzo del segno distintivo o del nome di una testata (insomma, di tutto ciò che è protetto dalla legge) per fornire servizi pubblicitari tramite motori di ricerca e applicazioni assimilabili. Se tutto questo dovesse (come appare probabile) consolidarsi, molti operatori potrebbero trovarsi di fronte alla drastica alternativa fra il sostenere costi elevatissimi per le numerose azioni giudiziarie che potrebbero essere promosse praticamente da chiunque, o rinunciare a strumenti di marketing e comunicazione di grande interesse e utilità. Ma i problemi suscitati da questi casi giudiziari vanno molto al di là delle questioni giuridiche sulla tutela della proprietà intellettuale, perché spingono a interrogarsi sul la “proprietà” delle parole. Vale a dire sulla possibilità che qualcuno possa consentire – legalmente – di utilizzare certi vocaboli solo a chi può permettersi di pagarli.
Fino a quando questo diritto si applica a nomi di fantasia, poco male, ma pensare che lo stesso criterio debba valere indiscriminatamente anche per parole di uso comune che vengono registrate come marchio (non c’è un settore merceologico “immune” da questa prassi) può essere francamente eccessivo. Non vorrei dover vedere un vocabolario di italiano dotato di licenza GPL per evitare che qualcuno ci impedisca di utilizzarlo.
Possibly Related Posts:
- Dentro il G-Cans
- Chatbot troppo umani, i rischi che corriamo
- Qual è il significato geopolitico del sistema operativo Huawei Harmony OS Next
- TeamLab Planets: da Tokyo la fuga verso i mondi della mente
- Chi ci protegge dal dossieraggio tecnologico?