Pochi giorni fa, Nvidia ha annunciato il rilascio in ambiente Linux dei moduli del kernel che fanno funzionare le proprie GPU con licenza GPL/MIT. Tradotto per gli esseri umani, questo significa che i software che fanno funzionare le schede grafiche più utilizzate per il machine learning potranno essere integrati in modo ancora più efficiente in Linux, e senza dover pagare costose licenze. Questo significa, in altri termini, che con il ricorso alle licenze “libere” la ricerca potrà avvantaggiarsi non poco e che Nvidia consoliderà ulteriormente la propria posizione su un mercato di estrema importanza e criticità di Andrea Monti – inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian TechÈ vero che sono oramai passati i tempi nei quali la Microsoft equiparava Linux al cancro (per poi successivamente cambiare idea). Come è vero che la distinzione fra approccio proprietario e “libero” alla proprietà intellettuale non è più così manicheo come in passato: il software libero e le varie declinazioni delle licenze open source sono una presenza consolidata sul mercato e nelle strutture di ricerca. Tuttavia, il caso di Nvidia è interessante perché non si limita alla “semplice” scelta di cambiare il regime di proprietà intellettuale di un software.
Intendiamoci, non è che Nvidia sia stata folgorata sulla via di Damasco convertendosi improvvisamente alla filosofia della GPL: per esempio, i driver user-mode come CUDA rimangono del tutto proprietari. Il ricorso alle licenze libere per alcune componenti software rientra senz’altro in una strategia commerciale (e non ideologica) più ampia. Dunque, è presto per dire se questa scelta spingerà i concorrenti diretti e, in generale, i big player del mercato del hardware (ma anche del software) a seguire la strada della progressiva adozione di licenze libere o aperte per tutti i prodotti. Di certo, ed è questo che interessa, siamo di fronte all’ennesimo riconoscimento del valore di un’idea —quella del software libero— che si è guadagnata un posto d’onore fra le innovazioni vere (cioè quelle che producono effetti positivi di lunga durata) del nostro tempo.
A margine (e in conclusione) c’è da farsi però una domanda. Richard Stallman ha saputo costruire una rivoluzione culturale prima ancora che tecnologica partendo da un approccio perfettamente valido in termini giuridici e dunque già applicabile senza bisogno di “nuove leggi”. Ma perché —dal punto di vista strategico— lo ha fatto lui e non uno dei tantissimi giuristi che si professa(va)no “esperti” di società dell’informazione?
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