La sanzione fiscale pagata da Google non placa lo spettro della webtax

Una lettura semplicistica delle ragioni che hanno spinto Google ad accettare di pagare una sanzione fiscale di 326 milioni di Euro indurrebbe a pensare che, tutto sommato, se lo ha fatto è perché c’era una convenienza in termini di risparmio sul “prezzo pieno” della sanzione che includeva anche il rischio di condanne penali. di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su La Repubblica – Italian Tech

In realtà, la scelta appare motivata da ragioni più articolate, che si basano sull’annosa discussione sulla “web tax”, cioè sul come tassare in Italia i redditi prodotti da Big Tech prive di sede fiscale nel nostro Paese, e che non riguardano soltanto Google. Altre Big Tech, infatti, hanno negoziato accordi analoghi oppure sono ancora sotto indagine —è il caso di Meta— sempre a Milano e sempre per questioni legate al modo in cui sono erogati i servizi.

Su cosa sono basate le accuse della Procura di Milano

I presupposti tecnologici utilizzati dalla Procura di Milano per indagare sulla Big Tech di turno sono sostanzialmente sempre gli stessi due: la localizzazione delle infrastrutture e la natura giuridica dei dati, cioè degli aspetti più dirompenti del modo in cui i servizi di comunicazione elettronica hanno messo all’angolo i tradizionali principi della normativa fiscale.

Infrastrutture cloud e “stabile organizzazione”

Il primo presupposto riguarda la localizzazione dell’infrastruttura che eroga i servizi.

Se, come nel caso di un “normale” operatore di e-commerce estero, il venditore gestisce tutto “da casa propria” (cioè se il cliente si collega a un servizio erogato integralmente dal di fuori dei confini italiani) il reddito è pacificamente prodotto nello Stato in cui opera l’esercente che dunque paga le tasse in quel luogo.

Un po’ più complesso è il caso di operatori stranieri che “appoggiano” alcune parti della propria infrastruttura sul suolo italiano. Accade, per esempio, con le cache, server discretamente alloggiati in importanti data-centre e che, grazie ai “miracoli” del cloud computing, contengono i dati che devono essere veicolati verso il cliente italiano e i software che lo consentono, in modo da evitare la generazione di traffico inutile sulla rete e un degrado di prestazioni.

Se queste infrastrutture localizzate, deve aver ragionato la Procura di Milano, diventano così rilevanti per l’erogazione del servizio vuol dire che sono una parte stabile dell’attività della piattaforma e che contribuiscono a fornire il servizio ai clienti italiani.

“Stabile” è la parola chiave perché significa che senza quella parte di infrastruttura basata in Italia non sarebbe possibile erogare del tutto il servizio o —ed è questa la parte sui cui si potrebbe discutere a lungo— che se venisse meno comprometterebbe la qualità e dunque l’appetibilità commerciale del prodotto.

La Procura ritiene, evidentemente, che Google gestisca in Italia sistemi tecnologici indispensabili per erogare i servizi o per farlo in modo commercialmente vantaggioso e che quindi avrebbe dovuto pagare in Italia le tasse sulla quota di servizi erogati obbligatoriamente tramite questa infrastruttura.

In teoria, l’applicazione di questo principio “regge” ma da qui a dimostrarne l’applicabilità concreta ce ne corre. Sarebbero infatti necessarie molte verifiche per capire la fondatezza dell’accusa, ma che avrebbero implicato l’accesso a informazioni tecniche e non solo che devono invece a tutti i costi rimanere confidenziali.

Da questa considerazione emerge uno dei possibili motivi che potrebbero aver contribuito a spingere verso l’accettazione dell’accordo: se la difesa in giudizio costringe a rivelare delle informazioni la cui circolazione avvantaggia i concorrenti, indebolisce la sicurezza o condiziona il valore di mercato dei titoli, meglio chiudere con un accordo ed evitare queste possibili conseguenze negative. Del resto, non sarebbe la prima volta che accade una cosa del genere come insegnano i motivi della rinuncia di Apple alla causa contro il produttore di spyware istraeliano NSO.

La natura giuridica dei dati e il loro valore economico

L’altra linea di attacco alle pratiche commerciali di Big Tech seguita dalla Procura di Milano (ma non nei confronti di Google, in questo caso) riguarda la possibilità di considerare i dati come “moneta di scambio” per i servizi e dunque come bene che acquisisce un valore intrinseco. In altri termini, se per usare un servizio l’utente deve cedere i diritti sull’uso dei propri dati allora vuol dire che il servizio non è gratis e che, quindi, sul suo costo vanno pagate le tasse, IVA compresa.

Il fatto che i dati possano essere una “moneta di scambio” è acclarato, in Italia, da oltre vent’anni, eppure nessuna autorità ha mai pensato di fare quello che sta facendo da qualche tempo la Procura di Milano —dare un valore ai dati consegnati dagli utenti ed esigere il pagamento delle relative tasse. Dunque Meta potrebbe, ad esempio, sostenere di avere fatto legittimo affidamento (il termine tecnico per indicare l’essersi fidato del comportamento passivo dell’amministrazione) sul fatto che quella vecchia interpretazione dell’Antitrust non dovesse essere applicata.

La reale convenienza dell’accordo con il fisco non riguarda solo Big Tech

La soluzione pragmatica a questo problema è, appunto, quella di un accordo in fase di indagini che consente di evitare il processo.

In questo modo l’accusato evita il formarsi di un precedente che potrebbe essere applicato anche in altri casi, mentre la procura evita il rischio che il teorema accusatorio si possa dimostrare infondato, dal momento che ha applicato all’accordo l’attenuante della complessità dell’interpretazione della normativa. Questo significa, infatti, che l’incertezza sull’applicabilità delle leggi fiscali avrebbe potuto consentire al giudice di interpretarle in modo diverso da quanto aveva fatto il pubblico ministero, impedendo o rendendo più difficile promuovere nuove indagini sugli stessi presupposti giuridici.

Alla fine, dunque, ciascun partecipante ha ottenuto un vantaggio da questa transazione: la Procura “segna il punto”, l’erario recupera delle somme (ma a quanto ha rinunciato, vista la solvibilità dei soggetti coinvolti?), Big Tech è libera di continuare allo stesso modo, fino alla prossima indagine, al prossimo accordo, al prossimo pagamento “libera tutti”.

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