di Andrea Monti – PC Professionale n. 243
Dal tribunale di Ortona una sentenza che farà discutere. Le testate online devono cancellare gli articoli non più attuali che contengono dati personali. In pericolo il diritto ad essere informati?
La sentenza n.8/2011 emessa dal tribunale di Ortona il 20 gennaio 2011 apre una ferita difficilmente guaribile nel corpo normativo della libertà di stampa. Stabilisce infatti il giudice che, decorso un certo lasso di tempo – peraltro non quantificato dalla sentenza – le notizie pubblicate su una testata giornalistica online contenenti dati personali debbano essere cancellate.
Il caso riguarda la copertura offerta da un quotidiano locale abruzzese, Prima da noi, di una vicenda giudiziaria che era stata seguita nel pieno rispetto dei principi che governano il diritto di cronaca (pertinenza, continenza e rilevanza pubblica della notizia), dando conto di tutte le fasi dall’inizio alla fine. Nonostante il parere favorevole del Garante dei dati personali (che non aveva rilevato profili di violazione) alla permanenza dell’articolo il tribunale ha ritenuto la prevalenza dei diritti dell’interessato garantiti dall’art. 7 del codice dei dati personali sui diritti costituzionali che tutelano la libertà di stampa e il diritto all’informazione.
La normativa sui dati personali, infatti, attribuisce a ciascuno di noi il diritto di ottenere, per motivi legittimi, la cancellazione e la rettifica dei dati che ci riguardano. Ma questo non significa che questo diritto si possa esercitare secondo i propri capricci. Come scrive la norma, ci deve essere una buona ragione per chiedere la cancellazione dei dati che ci riguardano. Ed è proprio questo il cardine attorno al quale ruota il ragionamento che ha condotto il giudice di Ortona a pronunciare una discutibilissima sentenza.
Il presupposto – viziato – della decisione è che una notizia, una volta pubblicata, dopo qualche tempo perde interesse e dunque, se contiene dati personali, non deve essere più disponibile online. Questo perchè si violerebbero i principi di cui all’art.11 del codice dei dati personali che limita la durata temporale del trattamento al “periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti e trattati”. A contemperare la funzione costituzionale della stampa, continua il giudice, basterebbe conservare una copia cartacea della notizia oramai “desueta” negli archivi storici della testata.
Gli aspetti interessanti di questa sentenza sono due. Il primo è l’orientamento luddista espresso dal tribunale di Ortona che si traduce nella mortificazione del diritto dei cittadini ad essere informati e nella compressione della libertà di stampa. La libertà di informazione è uno dei cardini di ogni società democratica e la tutela dell’attività giornalistica serve appunto a garantire che i cittadini possano essere adeguatamente informati per esercitare consapevolmente i loro diritti di cittadinanza. Grazie all’internet e alle piattaforme di content-management (e prima ancora alle BBS e alle mailing-list nel mondo pre-web) questi diritti sono sempre più facili da esercitare. Non è un caso se il tentativo bipartisan dei governi degli ultimi quindici anni sia sempre stato quello di limitare l’uso della rete per il controllo del “potere” con le scuse più diverse. Ad aiutare la causa dei censori ci sono i teorici del “diritto all’oblio”, una distorta visione della privacy in nome della quale anche il peggiore dei delinquenti (condannati con sentenza passata in giudicato) ha diritto a far perdere le tracce di sé.
Questo, con tutta evidenza, è il contesto dal quale spunta fuori la sentenza del tribunale di Ortona che estende inaccettabilmente la prevalenza del diritto alla riservatezza (che solo in parte si interseca con quello al corretto trattamento dei dati personali) sul diritto della collettività all’uso di uno strumento – l’immediata disponibilità dell’archivio storico delle notizie di una testata giornalistica – di controllo democratico della collettività sull’operato del potere. E la critica non è soltanto al portato culturale, ma anche – e soprattutto – agli argomenti di diritto che se confermati giustificherebbero una massiccia attività revisionistica dei contenuti dell’informazione online.
Fino dalla sua prima incarnazione (la legge 675/96) la riservatezza nel trattamento dei dati personali è stata presentata strumentalmente, nello stesso tempo, come “legge superiore” rispetto alle altre e si è tradotta nella pratica come freno per lo sviluppo del mercato ICT in Italia. Ma il Codice dei dati personali, con buona pace di chi ha interesse a sostenere il contrario, è una legge “come tante”. Non ha il potere di prevaricare norme di pari grado, e deve essere applicato nel rispetto della Costituzione. Come scrisse la Corte di cassazione, infatti, questa normativa non è uno statuto generale della persona ma – più limitatamente – una norma da leggere in confronto dialettico e gerarchico rispetto alle altre e che detta regole sulla gestione di dati. Se è così, allora, il diritto al corretto trattamento dei dati personali non può prevalere sul diritto a informare e ad essere informati quando questi diritti costituzionali – come nel caso giudiziario in questione – sono esercitati correttamente.
Veniamo ora al secondo aspetto interessante della sentenza: non necessariamente le posizioni del Garante dei dati personali vengono confermate in sede giudiziale. In altri termini, dunque, seguire un orientamento espresso dall’Autorità non è di per sé garanzia di rispetto della normativa. Questa sentenza non è né la prima né l’unica a sconfessare le posizioni del Garante dei dati personali, le cui decisioni vanno quindi “prese con le molle”.
Specie in ambito ICT, infatti, c’è la diffusa tendenza a considerare indiscutibili le prese di posizione dell’authority salvo poi vedersi trascinati in giudizio convinti di essere in regola e – come nel caso della testata online abruzzese – vedersi condannati anche al risarcimento dei danni. E’ auspicabile che, nella parte in cui condiziona l’uso della tecnologia al rispetto di un malinteso diritto alla riservatezza, questa sentenza rimanga un caso isolato e non produca un “orientamento giurisprudenziale”. I problemi dell’informazione online non si risolvono con la censura – perché di questo si tratta – ma con il controllo sull’applicazione corretta dei principi che governano il diritto di cronaca.
Se la notizia c’è ed è corretta, deve restare a disposizione concreta della collettività. Che è proprio ciò che la rete ha reso possibile.
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