Prima la gestione della pandemia poi il decreto Huawei hanno evidenziato un nuovo ruolo per i Dpcm. Ha senso, in una Repubblica parlamentare come l’Italia? L’analisi di Andrea Monti – originariamente pubblicato da Formiche.net
L’uso dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri come strumento per la gestione di fasi emergenziali ha suscitato critiche e perplessità fra gli esperti di diritto pubblico e costituzionale. Nella sostanza, ci si è chiesto se sia stato corretto e conforme a Costituzione che il presidente del Consiglio abbia ricevuto “pieni poteri” da esercitare tramite i Dpcm, o se, al contrario ci si sia trovati di fronte a uno “strappo” che difficilmente potrà essere ricucito.
L’analisi degli eventi che si sono succeduti già nei momenti antecedenti la dichiarazione dello stato di emergenza di protezione civile mostra che l’esercizio concreto del potere esercitato dal presidente del consiglio è stato molto simile a quello del executive order del presidente degli Stati Uniti. Bisogna quindi chiedersi se questo sia legittimo e, dunque, se non sia il caso di normativizzare in Italia queste nuove prerogative del capo del governo.
Per rispondere a questa domanda è necessario ripercorrere la storia recente dell’uso del Dpcm in rapporto alle emergenze degli ultimi mesi, che hanno accelerato vertiginosamente la mutazione genetica del potere governativo.
LE CRITICITÀ NELL’USO DEI DECRETI-LEGGE E DEI DPCM PER LA GESTIONE DELL’EMERGENZA
Come è noto, in nome della separazione dei poteri, l’esecutivo non ha capacità normativa che, di regola, spetta al Parlamento. L’eccezione è costituita da un “atto usurpativo” del governo che, in casi di necessità e urgenza, può emanare un decreto-legge sostituendosi temporaneamente al Parlamento. Durante la pandemia, però, sono stati i Dpcm e non i decreti legge a funzionare come strumenti di gestione dell’emergenza, il che ha dato corso al dibattito di cui si è detto in apertura.
In un lavoro complesso e articolato il professor Massimo Luciani ricostruisce la discussione accademica e conclude, chiedo sin d’ora scusa per la semplificazione, che essendo i Dpcm “autorizzati” con decreto legge, il loro utilizzo è stato conforme alla Costituzione. Di conseguenza non si può parlare di “stato di eccezione” né di condizione dittatoriale, né tanto meno si può parlare (di una estensione delle regole) sullo stato di guerra.
La tesi, come si direbbe in un’arringa, “spiega troppo”: il rispetto delle forme e delle procedure costituzionali, infatti, non è sufficiente a sostenere la correttezza sostanziale del modo in cui sono stati utilizzati i Dpcm.
In primo luogo, rimanendo in un ambito strettamente giuridico, nelle analisi che supportano la correttezza formale della legislazione di emergenza manca la spiegazione del perché non sia stato possibile utilizzare lo stato di pericolo previsto dal Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e attribuire al ministro dell’Interno i relativi poteri (se ne era già scritto su Formiche.net).
In secondo luogo, per fatti concludenti, al rispetto delle forme non ha corrisposto quello della sostanza. I decreti-legge Covid sono stati emanati a seguito della dichiarazione di emergenza di Protezione civile (non di uno stato di emergenza tout-court) che a sua volta è stato deciso con una semplice deliberazione del presidente del Consiglio. In altri termini, un atto unilaterale del governo è stato l’innesco per l’emanazione dei decreti-legge che hanno dato “pieni poteri” al presidente del Consiglio.
Infine, anche se i Dpcm sono stati emanati a valle dei decreti-legge (scritti dal governo), questo non rende automaticamente legittimi i contenuti dei Dpcm stessi e il modo in cui sono stati usati. Il significato di questa affermazione sarà chiarito alla fine di questo articolo.
A margine, nella valutazione complessiva dell’uso dei Dpcm va incluso anche il tono della comunicazione istituzionale di questi provvedimenti, basata su una narrativa fortemente caratterizzata dalla concentrazione sulla persona del presidente del Consiglio e dall’uso di verbi in forme assertivamente imperative.
LE CRITICITÀ DELL’USO DI DECRETI-LEGGE E DPCM NEL CASO HUAWEI
La vicenda Huawei offre, autonomamente, ulteriori spunti di riflessione. Il decreto-legge 105/19 che estende i poteri governativi in materia di sicurezza nazionale è stato emanato sulla base di non rinviabili urgenze derivanti dal pericolo per la sicurezza nazionale rappresentato dall’impiego di tecnologia cinese nell’infrastruttura italiana 5G.
Tuttavia, a oltre dieci mesi dall’emanazione del decreto (sostanzialmente confermato dalla legge di conversione) a parte i poteri speciali del governo, del complesso apparato burocratico che avrebbe dovuto assicurare la protezione delle infrastrutture critiche nazionali non c’è ancora traccia.
Inoltre, ai sensi dell’articolo 16 ter del Codice delle comunicazioni elettroniche, il Mise aveva già il potere di intervenire sugli operatori per garantire la sicurezza della rete. Quindi era già disponibile uno strumento regolamentare, e dunque di rapida emanazione ed immediata applicabilità, che avrebbe consentito di ottenere in tempo praticamente reale il risultato desiderato.
Infine, l’invocazione del pericolo come presupposto per l’emanazione di un decreto-legge, specie in materia di sicurezza nazionale, è una base traballante e insidiosa. A differenza di una calamità naturale o di un evento economico (il fallimento di un banca), il “pericolo” è per definizione un non-fatto nel senso che opera come criterio per stabilire una tutela anticipata, non potendosi permettere il lusso di aspettare che il danno si verifichi (la letteratura penalistica ha sommerso il tema con fiumi di inchiostro che varrebbe la pena leggere, peraltro).
Di conseguenza i presupposti della necessità e urgenza che legittimano l’emanazione del decreto-legge dovrebbero essere valutati con maggiore attenzione e rigore. Ma se l’oggetto della decretazione è la sicurezza nazionale, che per definizione opera sulla base di informazioni non ostensibili, diventa difficile far sì che la valutazione parlamentare sia effettivamente consapevole e che, soprattutto, l’operato del governo possa effettivamente essere controllato.
Alla dubbia legittimità del decreto 105/19 si affiancano le perplessità sull’uso del Dpcm per regolare i rapporti fra due soggetti privati, derogando ad una legge (il Codice civile) come è accaduto nell’esercizio dei poteri speciali in base ai quali il presidente del Consiglio ha ridimensionato i rischi per la sicurezza nazionale derivanti dall’uso del 5G Huawei.
Inoltre, suscita dubbi la legittimità dell’imporre un segreto sull’esistenza del provvedimento autorizzatorio sulla base di “ragioni di opportunità” e non su una specifica norma.
LA SECRETAZIONE DEI VERBALI DEL CTS COVID-19
Stando alle dichiarazioni riportate dalla stampa sono ragioni di principio (generica necessità di tutelare ordine e sicurezza pubblica e natura amministrativa degli atti del Cts) e non specifiche norme quelle che hanno motivato, inizialmente, la secretazione (poi ritirata) dei verbali del Cts da parte del presidente del Consiglio.
CONCLUSIONI
La migliore sintesi del modo in cui sono cambiati il ruolo e la funzione del Dpcm è contenuta nella sentenza Tar Lazio 4120/2020 che ordinava la pubblicazione dei verbali del Cts Covid-19: “Quanto ai Dpcm in argomento, va evidenziata la peculiare atipicità, che si connota da un lato per caratteristiche ben più assonanti con le ordinanze contingibili e urgenti… in quanto si tratta di provvedimenti adottati sulla base di presupposti assolutamente eccezionali e temporalmente limitati”.
Il nuovo contenuto dei Dpcm, dunque, si caratterizza per essere l’emanazione di un potere diretto del presidente del Consiglio, sottratto al controllo parlamentare (che conserva il minimo potere, ove esercitato, di raccomandazione) utilizzabile anche per regolare situazioni speciali anche al di fuori di un effettivo stato di pericolo pubblico, di natura autorizzatoria in sostituzione delle attribuzioni di un dicastero, e secretabile senza la esplicita necessità di una previsione normativa.
Di fatto, anche se non (ancora) di diritto dunque, il Dpcm si è avvicinato all’istituto dell’executive order del presidente degli Stati Uniti. Si tratta di un potere di fatto non previsto da alcuna norma ma dedotto in via interpretativa dall’articolo due della Costituzione americana sulla base del quale il presidente Usa esercita un’ampia discrezionalità nell’applicazione della legge, con l’unico limite (sindacabile giudizialmente) del rispetto della Costituzione.
Questa trasformazione del Dpcm è difficilmente compatibile con la forma di governo della Repubblica Italiana e con il modo in cui è stata attuata la separazione dei poteri. La possibilità per l’esecutivo di dichiarare lo stato di pericolo, quello (più limitato) di emergenza, le attribuzioni (anche in termini di potere di ordinanza contingibile e urgente) dei ministri e la possibilità di emanare decreti-legge, infatti, già consentono al governo uno spazio di manovra estremamente ampio che non necessita di ulteriori espansioni. In altri termini, allo stato attuale non ci sono ragioni per ampliare i poteri dell’esecutivo, essendo sufficiente usare in modo efficiente quelli che già detiene.
Se, però, in termini giuridici il cambio di pelle dei Dpcm è difficilmente sostenibile, rimane aperta la questione politica dell’opportunità del progressivo accentramento dei poteri nelle mani del presidente del Consiglio a partire dalla legge 225/1992 e, di conseguenza, del ruolo progressivamente consultivo del Parlamento.
Essendo libera nel fine, una decisione politica in un senso o nell’altro non è in sé giusta né sbagliata, ma è fondamentale che si esca dall’ambiguità.
Il Parlamento decida espressamente se, a fianco del “potere usurpativo” costituito dalla decretazione d’urgenza, alla presidenza del Consiglio debbano essere attribuiti anche poteri esecutivi speciali e di che tipo. Magari facendo tesoro dell’esperienza statunitense e del modo in cui l’attuale amministrazione se ne sta avvalendo.
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