di Andrea Monti – WebMarketing Tools n.33/00
In questo articolo ritorno – congiuntamente – su temi già trattati nei numeri scorsi: burocrazia inutile e diritto d’autore. La nuova legge sul copyright, sicuramente peggiore della precedente – è stata “opportunamente” reclamizzata per ogni dove, ma evidentemente chi la ha scritta non ha avuto nessuna attenzione per le conseguenze sull’attività delle internet company e delle numerosissime aziende che cercano di far decollare un uso efficace della rete. Questa legge è l’ennesima riprova che al di là dei “proclami” sulla società dell’informazione, il nostro Parlamento non riesce ad andare.
La legge 248/00 (approvata il 26 luglio scorso e da poco in vigore) che modifica nuovamente l’assetto normativo del diritto d’autore, tutta presa dalla tutela degli interessi dei giganti del software e dell’audiovisivo, si rivela estremamente penalizzante per le aziende che direttamente o indirettamente operano nelle ICT.
Così web agency e advertiser che per la necessità di strutturare campagne “omogenee” tendono a riutilizzare on line materiali – come i commercial – prodotti per altri media, dovranno iscriversi in un apposito registro presso le questure (art. 75 bis l.d.a.), rinnovando l’adempimento ogni anno, ed essendo soggette ai relativi controlli di polizia amministrativa. Inoltre (insieme alle software house e ai produttori di contenuti), saranno obbligate ad acquistare il famigerato “bollino SIAE” da incollare sui supporti che contengono le opere riprodotte (art. 181 l.d.a.). Questo anche per i materiali posti in pubblico dominio o con licenze open source dove il problema del controllo sul numero di esemplari riprodotti o quello della distinzione di un originale dalla copia non sono in discussione. E’ evidente che tutto questo si traduce in un aumento di costi diretti ed indiretti, oltre che – cosa più grave – in una sicura riduzione dell’efficienza dei servizi. Basta pensare a cosa succederebbe dovendo acquistare centinaia di migliaia di bollini da attaccare su un CDROM promozionale, quando altri operatori magari ne hanno già richiesto quantitativi analoghi a fronte di una prevedibile scarsità di queste pecette. Certo, si possono stipulare degli accordi per ottenere l’assoluzione “virtuale” dell’obbligo come già accade per alcuni atti delle amministrazioni finanziarie, ma questo significa soltano spostare gli attriti da un punto ad un altro del processo produttivo.
Inoltre con l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri del Comitato per la tutela della proprietà intellettuale (di cui fa parte la SIAE), sarà necessario strutturarsi per rispondere alle richieste di documentazioni e alle informative che questo ente avrà il potere di chiedere.
E’ evidente che far fronte ad una mole di adempimenti di questo tipo non è impresa da sottovalutare, pertanto è necessario sfruttare i tempi di attuazione della legge per valutare se e come bisogna modificare i propri processi interni, giungendo, al limite, a valutare l’istituzione di un’apposita divisione che si occupi di proprietà intellettuale sia all’esterno che nell’ambito aziendale.
Questo, anche perchè la nuova legge ha significativamente modificato anche il reato di duplicazione abusiva di software, che prima era punita solo se commessa “a scopo di lucro” mentre ora è penalmente illegale anche solo se compiuta “per trarne profitto”. Una differenza terminologica, questa, tanto sottile quanto gravida di conseguenze per l’organizzazione d’impresa.
Fino al luglio di quest’anno una serie pressocchè ininterrotta di sentenze penali aveva tracciato un distinguo abbastanza netto fra le ipotesi di duplicazione illecita penalmente rilevante (vendere copie abusive) e quelle non costituenti reato (uso personale, impiego di più copie di quanto previsto nella licenza d’uso). Da ora in poi, invece, praticamente qualsiasi tipo di duplicazione può costituire una violazione della legge penale e quindi anche il “tollerare” la presenza in azienda di software non registrato potrebbe far scattare un procedimento penale a carico quantomeno del dipendente.
La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che oggi software, applicazioni multimediali e contenuti vengono acquistati online e – a parte l’estratto conto della carta di credito – l’unica prova di avere la legittima detenzione di questi prodotti è una mail o la stampa di una pagina web, il cui valore giuridico è praticamente nullo. Questo è solo uno dei tanti possibili esempi nei quali la massima buona fede non è sufficiente a tenere lontani i guai.
Ci sono però degli accorgimenti che possono in qualche misura ridurre il rischio di violare incosapevolmente la legge e di gestire efficientemente gli eventuali contatti con l’autorità giudiziaria. In modo da fornire la massima collaborazione riducendo al minimo il rischio di sequestri o altre misure cautelari ahimè sempre in agguato.
Sarà dunque opportuno in primo luogo “mappare” le risorse informatiche di un’azienda, tenendo traccia delle configurazioni di ciascuna macchina e dei software ivi installati.
Il passo successivo è la verifica dell’esistenza di documentazione che possa dimostrare la legittimità dell’uso dei software, per ciascun elaboratore (facendo particolare attenzione all’acquisto di computer usati). Il tutto coordinato con una razionale gestione degli acquisti in modo da avere sempre chiaramente indicato il “cosa” si sta pagando (un prodotto, una licenza, un servizio). Non è raro il caso, infatti, di confusioni o ambiguità specie quando l’acquisto riguarda più “oggetti” (manutenzione, hardware, assistenza, software, contenuti…)
Non va poi sottovalutata l’adozione di misure formative e informative nei confronti di manager e dipendenti. Sarebbe infatti opportuno predisporre innanzi tutto una policy interna, poi, periodicamente, circolari-promemoria e infine controlli a campione sull’osservanza delle prescrizioni. Non si tratta certo di indicazioni nuove o particolarmente “rivoluzionarie”, ma è bene ripeterle fino alla nausea.
Pochi hanno realmente percepito quanto “invasiva” e scioccamente pericolosa possa essere la nuova legge sul diritto d’autore che se non verrà nuovamente “disinnescata” dalle sentenze esploderà con una potenza mai vista.
Le conseguenze sono facili da immaginare.
Possibly Related Posts:
- Webscraping e Dataset AI: se il fine è di interesse pubblico non c’è violazione di copyright
- Scandalo ChatGpt sui dati personali? L’ennesima conferma che la rete libera è un’illusione
- Un’opera d’arte prodotta dall’Ai ha diritto al copyright. E l’artista non avrà più centralità
- Il Tribunale di Milano mette (sperabilmente) fine all’ipocrisia dell’internet senza confini
- Il cloud estero deve bloccare l’accesso in violazione del diritto d’autore