di Andrea Monti – PC Professionale n. 215 febbraio 2009
La fine della network neutrality apre la strada per la responsabilizzazione (quasi) oggettiva degli ISP. Chi si ingerisce nelle azioni degli utenti potrebbe rispondere legalmente per non avere impedito la commissione di un illecito.
Quattro dirigenti di Google saranno processati penalmente a Milano il prossimo 3 febbraio 2009 per non avere bloccato in anticipo un video di maltrattamenti a un disabile. Il 2 dicembre 2008 Youtube annuncia sul suo blog una restrizione sull’accessibilità di contenuti “discutibili” anche se non illegali. Sempre nel dicembre 2008 il tribunale penale di Milano – dopo quello di Bergamo – impone ai fornitori di accesso alla rete di sequestrare tramite filtraggio della navigazione gli accessi a siti stranieri. E-bay attiva degli processi che chiudono le aste di prodotti in “odore” di contraffazione a fronte della segnalazione di chi si presenta come titolare di un marchio; e stendiamo un velo sulla storia della registrazione dei nomi a dominio .it… .
Le vicende anche giudiziarie che da un po’ di tempo a questa parte hanno visto protagonisti i giganti dei servizi internet-based hanno riacceso il dibattito mai sopito sul limite oltrepassato il quale un internet provider diventa responsabile per ciò che accade tramite la propria infrastruttura.
Come sempre, le tesi contrapposte sono due: la prima sostiene il concetto che l’ISP è “neutro” rispetto a quello che fanno i suoi utenti, mentre la seconda vuole il fornitore di servizi coinvolto direttamente perchè “non poteva non sapere” o perchè trae un vantaggio – anche indiretto – dal comportamento illecito del cliente (tesi che ha prodotto i tentativi di imporre una “tassa” sull’accesso alla rete, per compensare gli asseriti danni provocati dall’uso non corretto di software Peer-2-Peer). Il dilemma (tutt’altro che nuovo, visto che se ne parla in questi termini almeno dal 1995) sembrava definitivamente risolto dalla direttiva sul commercio elettronico, recepita in Italia con il decreto legislativo 70/2003.
Il provvedimento stabilisce abbastanza chiaramente che non c’è un obbligo di sorveglianza preventiva a carico dell’ISP e che la sua responsabilità giuridica sorge nel momento in cui non rispetta la network neutrality; cioè quando invece di limitarsi a far fluire il traffico di rete, si “intromette” selezionando i contenuti o i destinatari dei flussi di comunicazione. Questo è uno dei rarissimi casi in cui un principio tecnologico è stato incorporato (anche se con qualche difficoltà) in una norma di legge e che si è tradotto in un efficace strumento di difesa degli ISP a fronte dei tentativi di coinvolgerli nei reati commessi da chi utilizza i loro servizi. Ma con il passare del tempo – e questa è la novità che si sta cocnretizzando in questi giorni – gli ISP hanno cominciato a non rispettare più questo principio di doppia neutralità (tecnica e giuridica).
Nonostante, infatti, sulla carta continuino a sostenere di essere dei meri fornitori di piattaforme tecnologiche, del tutto estranei alle azioni degli utenti, nei fatti non è così. Sempre più spesso, anche sotto la pressione delle potenti lobby dell’audiovisivo e dell’anticontraffazione, o della magistratura, la neutralità del fornitore di servizi vacilla. Ecco dunque che discretamente cominciano a cambiare le condizioni di erogazione del servizio e sempre più spesso l’utente rischia di vedersi sospendere il servizio anche in relazione a contenuti o azioni perfettamente legali (e ne sono testimone diretto, visto che un noto servizio di advertising online mi aveva bloccato l’uso della parola “hacker”, ritenuta “sconveniente”, che mi è stata “restituita” solo quando ho fatto notare che i contenuti ai quali era associata erano assolutamente leciti e corretti).
Certo, i contratti e le condizioni di utilizzo – per non parlare delle dichiarazioni pubbliche dei vari rappresentanti ufficiali di questi soggetti – continuano a ribadire il concetto della neutralità del fornitore di servizi internet e il fatto che nessuna modifica contrattuale cambia l’impostazione generale del servizio offerto, che resta quello di semplice messa a disposizione di uno strumento.
Il punto è, tuttavia, che ci si può nascondere quanto si vuole dietro sofisticati congegni di ingegneria contrattuale, ma se si entra nel merito delle scelte di queste aziende, è indiscutibile che molti grandi operatori del mondo internet abbiano semplicemente deciso di non rimanere più neutrali ma di intervenire direttamente e concretamente (molto spesso) contro l’utente. Intendiamoci, il punto non è difendere chi commette atti illeciti, ma rispettare il diritto di chi, senza fare nulla di male, si trova improvvisamente cancellato dalla rete o addirittura messo alla berlina dal proprio fornitore di servizi, senza potersi difendere in modo efficace e, soprattutto, tempestivo.
D’altra parte, sia in termini di numeri che di costi, la scelta delle aziende (anche) multinazionali dell’ICT si capisce bene: è molto meglio evitare controversie giudiziarie con entità grandi e potenti, che stare a sentire un semplice utente. Così, se in mezzo agli scorretti c’è anche qualcuno in buona fede, poco importa: buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Ma se questa è la scelta, allora non ci si può lamentare se, coerentemente, vengono tratte le dovute conseguenze nel senso di configurare una vera e propria responsabilità autonoma dell’ISP.
Al momento, questo non è ancora possibile perché non c’è giurisprudenza che formalizzi questo “salto di interpretazione”, e probabilmente i tentativi in corso si risolveranno in un buco nell’acqua. Ma è solo questione di tempo, perchè le cose cambino. La strada verso il coinvolgimento diretto degli ISP è stata tracciata e – paradossalmente – soprattutto con il loro aiuto. Con buona pace di chi pensava che la network neutrality fosse solamente una “roba da tecnici”.
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