Non c’è bisogno dell’ennesima legge per regolare un fenomeno già punito dal codice penale. Ma con la scusa del “cyber” il Parlamento introduce nuove censure
di Andrea Monti – PC Professsionale ottobre 2016
Che cos’è il “bullismo”? E’ quando qualcuno (da solo o in gruppo) offende, minaccia o picchia una persona più debole o indifesa.
Il bullismo è punito dalla legge? Si, perché la minaccia, la violenza privata, le lesioni personali e la diffamazione sono già previste come reato nel Codice penale. Inoltre, quando i fatti sono commessi da tre o più persone che si organizzano in una “banda”, si configura anche l’associazione a delinquere. E se invece si tratta di un “flashmob” finalizzato al bullismo, l’art. 110 del Codice penale prevede un aumento di pena per il “concorso nel reato”.
Dal punto di vista delle indagini, il pubblico ministero può utilizzare i poteri di perquisizione, sequestro (anche di video, immagini e testi pubblicati online), intercettazione e può chiedere che venga applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari o della custodia in carcere, mentre dal punto di vista della pubblica sicurezza, il questore può adottare ulteriori misure preventive.
E’ appena il caso di notare che queste norme si applicano anche agli atti commessi tramite un computer collegato alla rete o – per dirla con un termine alla moda – “tramite i social”.
Ma allora, se è così, perché il Parlamento si sta affrettando ad emanare una legge sul bullismo?
In realtà non c’è alcuna ragione tecnica, perché le norme esistenti sono più che sufficienti. E se il Parlamento si preoccupa del fatto che le pene per i reati esistenti sono troppo leggere (falso, peraltro) allora sarebbe stato piuttosto il caso di cambiare quella norma che non fa scontare il carcere se si è condannati a pene fino a tre anni di galera e di impedire la possibilità di avere sconti di pena.
Al netto di queste considerazioni, dunque, cosa rimane della legge sul “cyberbullismo”?
Rimane, essenzialmente, l’ennesima declinazione del principio “per via telematica” (ora modernamente trasformato in “tramite social”) come scusa per introdurre controlli, censura e repressione.
L’articolo 2 attribuisce infatti al Garante dei dati personali il potere di decidere se il fatto sia penalmente rilevante e quello di ordinare l’oscuramento, la rimozione, il blocco delle comunicazioni e dei contenuti relativi all’atto di cyberbullismo.
Questa norma è tecnicamente sbagliata per due ragioni.
La prima: secondo la Costituzione, in materia penale esiste una riserva assoluta. Vuol dire che se c’è di mezzo un reato l’unico potere dello Stato che se ne può occupare è la magistratura. Il motivo è che la serietà delle conseguenze di una sanzione penale (galera, nei casi più gravi) richiede un procedimento di valutazione molto attento dei fatti (da qui il diritto di difesa, la presunzione di innocenza e via discorrendo). Se passasse l’articolo 2, il Garante dei dati personali – che non ha poteri in materia penale – si sostituisce al pubblico ministero e al giudice penale (con il rischio, peraltro, di compromettere le indagini).
La seconda ragione: stabilire che il Garante ha il potere di giudicare il comportamento individuale è in contraddizione con il regolamento generale sulla protezione dei dati personali che al “considerando” numero 18 stabilisce testualmente:
Il presente regolamento non si applica al trattamento di dati personali effettuato da una persona fisica nell’ambito di attività a carattere esclusivamente personale o domestico e quindi senza una connessione con un’attività commerciale o professionale. Le attività a carattere personale o domestico potrebbero comprendere la corrispondenza e gli indirizzari, o l’uso dei social network e attività online intraprese nel quadro di tali attività.
Tradotto: il Garante dei dati personali non ha potere sull’attività dei privati che postano su Facebook.
Certo, si potrebbe dire, ma la norma è diretta ai fornitori di servizi e non ai privati, quindi il Garante ha pieno titolo per intevenire.
Ancora una volta, la risposta è no.
Primo, perché rimane sempre fermo il fatto se c’è un reato l’unico che può intervenire è il magistrato.
Secondo, perché una interpretazione del genere significherebbe, nei fatti, aggirare il limite stabilito dal Regolamento generale.
L’aspetto grave di questa legge ignorante e superficiale è che con la scusa di proteggere i deboli indebolisce le garanzie di chi è parte di un processo penale – vittime comprese. Purtroppo, questo non è un fatto nuovo nè isolato perchè già l’incostituzionale provvedimento dell’Autorità delle comunicazioni sulle violazioni del diritto d’autore, cui sembra chiaramente ispirato il meccanismo recepito da questa legge, aveva stabilito un procedimento di giustizia sommaria per violazioni di carattere penale.
Dopo aver dimostrato che la legge sul cyberbullismo è inutile e pericolosa, rimane da dimostrare il perché sia anche ipocrita, ed è la parte più semplice.
Qualsiasi cosa che contribuisce ad evitare la presentazione di nuove denunce penali e dunque a evitare ulteriori carichi di lavoro per il sistema giustizia è benvenuta. Quindi se ai fatti di bullismo ci pensa qualcun altro, tanto di guadagnato.
Inoltre, salvi i casi veramente gravi, le pene applicabili in concreto sono di minima entità e – grazie a una recente riforma – anche in caso di condanna si scontano nei servizi sociali e non in carcere.
E, allora, la domanda: qual è il senso di una legge che non punisce?
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