Finalmente un giudice stabilisce che la “tassa sui supporti delle memorie di massa” è ingiusta. Ma ci sono voluti più di tredici anni.
di Andrea Monti – Key4Biz del 2 novembre 2017
Il Consiglio di Stato, essendo stato costretto a prendere atto della decisione della Corte di giustizia UEC-110/15, ha finalmente riconosciuti che la normativa sul diritto d’autore in materia di “equo compenso” non si applica agli utilizzatori professionali di memorie di massa e strumenti di duplicazione.
L’equo – anzi, l’iniquo – compenso è quella norma sulla base della quale per ogni memoria di massa (anche inclusa in computer e tablet) venduta, la SIAE (la criticatissma monopolista della gestione economica dei diritti d’autore degli artisti) incassa una quota del prezzo proporzionale alla capacità della memoria stessa. Tutto questo per “compensare” in anticipo gli autori per i “danni” provocati dalle “copie pirata” dei loro capolavori (molti dei quali non resistono nemmeno uno o due anni nelle classifiche musicali nostrane).
L’iniquo compenso è ingiusto per due ragioni: primo, tratta indiscriminatamente gli utenti privati e professionali come “delinquenti a prescindere” perché non è affatto detto che chi compra un computer lo usi per violare il diritto d’autore altrui. Secondo, perchè il mondo professionale e aziendale “occupa” terabyte di spazio disco per memorizzare dati e informazioni, non filimini e canzonette.
Mentre sul primo punto il Consiglio di Stato non si è espresso, sul secondo ha dovuto prendere atto (ma senza la decisione comunitaria non credo che lo avrebbe fatto) dell’iniquità dell’iniquo compenso e della insufficienza dei meccanismi di restituzione a posteriori delle somme pagate dal mondo dell’industria, dei servizi e delle professioni agli “autori”.
Cosa succederà ora?
E’ prevedibile – ma non si sa in quanto tempo – che i prezzi dei prodotti venduti “con partita IVA” si abbasseranno. Ma siccome non è chiaro se la riduzione riguarderà anche i professionisti (avvocati, architetti, ingegneri ecc.) è ipotizzabile che ci siano nuovi ricorsi per estendere l’effetto della decisione della Corte UE anche a queste categorie.
E’ ragionevole pensare, inoltre, che se la SIAE non restituirà spontaneamente – o facilmente – le somme indebitamente percepite in questi anni e dunque si profilano azioni individuali o di gruppo per riavere i soldi in questione.
In chiusura, però, si impone una considerazione sul rapporto fra i “padroni delle idee” e i diritti di cittadini e imprese.
Di “iniquo compenso” scrivo da oltre quattordici anni. Il primo articolo fu pubblicato nel 2003, sulle colonne di PC Professionale, dove scrivevo:
Il risultato paradossale è che l’intero comparto IT – grandemente estraneo alle polemiche di bottega del copyright – si troverà a subire aumenti ingiustificati di costi (e dunque diminuzione di profitti) per retribuire persone che con l’informatica non hanno nulla a che fare.
L’anno successivo, siamo al 2004, ALCEI, la storica associazione che si batte per i diritti digitali, commentando il “Decreto Urbani” (ennesima modifica alla legge sul diritto d’autore che la rendeva ancora più vessatoria) denunciava l’introduzione di un “prelievo coatto” a favore della SIAE di una parte del prezzo di supporti apparati e software di masterizzazione.
Nel corso di questi anni – specie agli inizi della polemica, che sostenevo praticamente da solo – nessuno ha mai voluto “toccare” questo argomento. Ricordo i silenzi imbarazzati dei “sicofanti del diritto d’autore” o le loro reazioni arroganti che liquidavano queste critiche alla legge sul diritto d’autore come “fiancheggiamento della pirateria”.
La loro, evidentemente, è stata una battaglia di retroguardia come quella combattuta dalla SIAE a protezione del proprio monopolio sulla gestione dei diritti. Costoro sapevano che presto o tardi avrebbero perso e che qualcuno – o qualcosa – li avrebbe costretti a “mollare la presa”. Ma fino a quel momento, hanno ottenuto vantaggi e privilegi a danno del mondo dell’impresa che nessuno toglierà loro.
E qui arriva il punto: emanare leggi sbagliate o mal scritte implica che, presto o tardi, quegli errori verranno corretti dalla giurisprudenza. Ma per ottenere questo risultato ci vuole tempo mentre – perdonatemi il gioco di parole – nel frattempo il mondo dell’impresa e i cittadini subiscono per anni vessazioni ed esborsi (a posteriori qualificati come) indebiti.
Il diritto d’autore non è un caso isolato.
Anche il Codice dei dati personali, tanto per fare un esempio, fu applicato anche alle persone giuridiche nonostante la direttiva 95/46 dicesse chiaramente (come fa anche il GDPR) che l’obiettivo era tutelare le persone fisiche. Ma dal 1993 si è dovuto attendere il 2011 per ottenere l’emanazione di una norma che rendesse legge quell’ovvietà. E nel frattempo, milioni di Euro andaro in fumo per rispettare un obbligo inesistente.
Situazione analoga riguarda l’attivismo paragiudiziario dell’Autorità per le comunicazioni in materia di diritto d’autore che è arrivata a farsi attribuire per legge poteri analoghi a quelli di un pubblico ministero.
Come è altrettanto inaccettabile il regime di data-retention (conservazione dei dati di traffico internet) bocciato dalla Corte EU e pervicacemente imposto e aggravato dal Parlamento italiano.
Anche in questo caso, il tempo (o l’Unione Europea) daranno ragione a chi sostiene l’incostituzionalità di queste norme. Ma nel frattempo, in nome di una legge sbagliata, saranno violati diritti individuali e sprecati soldi e risorse delle imprese.
Possiamo ancora accettare che legislatori e regolatori si comportino, impunemente, in questo modo?
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